giovedì 9 gennaio 2014

GLI AMERINDI DEL NORD: tra modernità e tradizioni culturali










Vivendo  nel XXI° secolo , possiamo constatare di aver cambiato il nostro modo di comunicare , di consumare e complessivamente di vivere . La velocità e i ritmi di queste trasformazioni hanno portato l’uomo verso la snaturalizzazione del concetto di libertà , intesa come condivisione , introspezione della  natura, ricerca spirituale ed espressione del libero pensiero, quale accettazione del concetto comunitario e delle sue garanzie . A tal proposito mi sembra necessario, citare la storia dei nativi d’America come varco essenziale per qualsiasi riflessione. Uno dei più grandi cantori e storici delle vicende di questi popoli,  è stato il pittore statunitense George Catlin (1796-1872),  il precursore di una etnografia che è prima di tutto descrizione di usi e costumi di popoli. 

Con l’occhio di chi nutre grande rispetto e viva curiosità, veniamo catapultati attraverso un quadro di Catlin in battute di caccia di bufalo nelle immense praterie,  dove scorrevano irruenti le acque torbide  dello Yellowstone e del Missouri, e scopriamo incantati e stupiti, cerimonie e  riti sciamanici, abbigliamenti pittoreschi, volti scavati dal tempo e dalla storia, ritrovandoci a rivivere le sue stesse emozioni, di fronte ad un popolo da lui stesso definito, portatore di onestà e onore, bellezza e fierezza,  a dispetto  degli infamanti pregiudizi, ingiusti e crudeli,  ricaduti sui loro destini . Definiti talora selvaggi, con le connotazioni più grette affibbiate a questa parola, venivano indicati e trattati  come devianti, pigri, ladri, privi di raziocinio, o addirittura non distanti dalle bestie; grande significato hanno invece le testimonianze di Catlin, che li definiva dotati di grande intelligenza, eccellenti nell’igiene di un corpo ammirevole dalla forme elastiche, inclini a spiccata spiritualità sottolineandone l’attaccamento alla natura (oggi parliamo di culture ecocentriche). Nelle sue lettere l’artista che ebbe a viaggiare tanto in lande sconosciute al seguito di missioni esplorative, ci tenne a sottolineare come da sedici milioni di nativi, dopo le malattie, dopo le guerre, il whisky e gli abomini creati e spesso voluti dall’uomo europeo invasore, ne rimasero al suo arrivo solo due milioni.
Partiamo dal presupposto che per nativi d’America si intendono oggi le  diverse tipologie di  popolazioni indigene precolombiane, a partire dalla lontanissima stirpe di origine asiatica (razza mongolide) che raggiunse e si stanziò America del nord, in America centrale e America del Sud sino alla Terra del Fuoco, così vicina all’Antartide. Poi arrivò la colonizzazione degli europei,  attuata nel Centro e Sud America dagli spagnoli e dai portoghesi a partire dal secolo XVI, nel Nord America dagli inglesi, francesi e olandesi, a partire dal secolo XVIII ma più decisamente nel secolo XIX . Determinante, rivoluzionario e spesso  distruttivo fu il ruolo di tali invasori spesso di pochi scrupoli. Poco noto è per esempio che il cavallo fu introdotto in America dagli spagnoli e che i mustang sono discendenti di cavalli addomesticati che ebbero a inselvatichirsi: gli amerindi cominciarono a utilizzarli modificando precedenti attitudini con grande destrezza.
Nei racconti di Catlin, nelle sue lettere a volte apparentemente caotiche, emergono infatti chiare le ingiustizie subite da questi popoli; Catlin colpito da tutto questo, vivrà il suo lavoro come una missione. Osservatore attento e scrupoloso  della quotidianità indiana, ne  saprà cogliere gli aspetti più importanti. Nato a Wilkes-Barre, in Pennsylvania, il 26 luglio 1796, dopo un’infanzia e una adolescenza tranquilla, si recò nel 1817 presso lo studio di Reeves e Gould, per essere avviato alla professione di avvocato.  A Luzerne manifestò appieno la passione per la pittura, decidendo di abbandonare gli studi di avvocatura. Da autodidatta riuscì a crearsi una buona fama di ritrattista, con l’approvazione del padre. Nel 1824 frequentando a Philadelphia la Academy of Art , avrà modo di vedere per la prima volta, una delegazione di indiani : è come una folgorazione per lui, qui inizia la sua vocazione. Dopo aver conosciuto Clara Bartlett Gregory la sposa il 10 maggio nel 1828. Iniziò i suoi viaggi al confine e si spinse oltre, per approfondire i suoi lavori e le conoscenze su questi popoli. Navigando sul  battello di Mister Chouteaued lungo lo Yellowstone, arrivò in un Forte prevalentemente commerciale gestito da un certo  mister McKenzie dell’American for Company con cui strinse amicizia. Da quel momento inizierà la sua avventura fatta di estrema abnegazione, pericolosi viaggi e povertà assoluta. Le sue mostre composte di suoi disegni su tali popoli,  frutto di tali e tanti disagi ma altrettanta passione, incuriosirono i tanti,  persino regnanti, ma pochi amarono come lui stesso amava,  i suoi lavori. Ci riferisce nei suoi scritti, che rilevante negli indiani era il significato attribuito alla parola: “ Medicine “. Parola che racchiudeva tutto ciò che per loro era misterioso, magico e sacrale. Per noi  europei tale parola è associata al significato di medico, per gli indiani “ i medici “ erano  gli stregoni,  esperti  in magia,  da qui capiamo poi il termine utilizzato per indicarli (“ medicine man “). Persino Catlin veniva indicato come medicine man  a causa della sua arte, per loro inspiegabile. La  “medicine bag” era invece la loro “ sacca del mistero “, della magia, tenuta chiusa e di rado aperta;  nei momenti di pericolo, la si invocava, chiedendone sostegno. . Per essa invocandone i servigi,  a volte venivano sacrificati cani, cavalli o venivano praticati digiuni o pene e sofferenze di vario tipo e genere .  Al confine, in quel periodo, gli indiani iniziavano, poiché derisi e dileggiati dai bianchi, ad abbandonare questa usanza, ma nei posti allora frequentati da Catlin era ancora molto  radicata, e come buon auspicio prima della battaglia o nelle difficoltà quotidiane era fondamentale affidarsi a tali pratiche. Quando un ragazzo dei  “ popoli “ arrivava a quattordici - quindici anni,  iniziava a formare la sua “ medicine “, e doveva abbandonare per due, tre giorni, a volte anche per più giorni,  il villaggio, invocando il “ Grande Spirito”, digiunando per tutto il tempo. In questo periodo, tra pericoli e rischi di vario genere, addormentandosi, doveva sognare l’ “ animale “ inviatogli dal Grande Spirito, il quale  sarebbe divenuto il suo protettore per tutta la sua vita. Tornato nel villaggio e  informati gli altri di quanto accaduto, si doveva  procurare, cacciandolo,  la pelle dell’animale sognato, per poi realizzare la sua medicine bag, ornandola a proprio  piacimento. Tale “ Medicine “  l’avrebbe seguito per l’intera sua vita, fino alla morte e sepoltura.  Il suo valore per tali popoli era vitale, incommensurabile, non aveva prezzo, e un guerriero che malauguratamente la  perdeva in battaglia,  cadeva in disgrazia agli occhi dei sui fratelli di sangue. Veniva umiliato, fino ad essere considerato in importanza meno di un bimbo: gli si attribuivano  soprannomi di “uomo senza medicine” o “uomo che ha perduto la medicine”. Solo recuperando in battaglia la medicine di un nemico,  riusciva a ripristinare l’onore perso e recuperare la propria condizione sociale all’interno della comunità indiana. Era possibile avere solo una medicine nella vita, e se persa in battaglia era possibile riaverne una solo in battaglia.  Catlin ebbe modo di conoscere da vicino i “ medicine man” indiani, i quali ricoprivano un ruolo sociale fondamentale nel villaggio,  e venivano consultati sempre come oracoli prima di ogni decisione. Ottima risultava la lavorazione delle pelli trattate con acqua e cenere, lasciate ad asciugare o lavorate con processi di affumicatura, con cui si abbigliavano e innalzavano tende, chiaro esempio di manifattura indiana. Bellissime erano le loro chiome, soprattutto tra i popoli dei Corvi, Sioux, Mandan, unti di grasso di orso che spesso strisciavano  per  terra; diverso l’aspetto degli indiani vicini al fiume Platte  quali per esempio i Sauk, i Fox e i Pawnee, i quali si rasavano il capo completamente. Come non citare gli Assiboine, alti, abili cacciatori,  con lunghe chiome appariscenti, che come i Dakota o i Sioux, erano conosciuti per avere quale usanza, quella di prendere pezzi di carne dalla schiena degli animali e farli bollire in un buca nel terreno, riempita con  pietre incandescenti. Gli Assiboine avevano tanti passatempi tra cui quello della pipa. Il capo o il medicine man si fermava al centro del luogo, intorno ad un fuoco,  intonando un canto, e coinvolgendo gli astanti, i quali prendevano a ballare, in ruota, e  ripetevano il gesto iniziale compiuto dalla loro guida. Un altro popolo veramente interessante era quello dei Mandan, raramente bellicosi, rispetto agli imponenti Sioux. Differivano i Mandan dagli altri popoli per via del colore dei loro capelli, degli occhi talvolta tendenti al chiaro, che lasciavano  pensare che non fossero indiani. Molto puliti nell’igiene personale. Le loro donne,  a centinaia,  protette da due sentinelle, la mattina si lavavano immergendosi  nelle fredde acque del fiume, mentre gli uomini facevano lo stesso in un altro punto del fiume. Tornati a casa, ungevano i propri capelli e il corpo di grasso di orso. Gli indiani del Nord America conoscevano bene il nuoto e lo praticavano frequentemente. I Mandan erano soliti a volte rinfrancarsi in alcune tende con dei trattamenti termali,   utilizzando pietre incandescenti, su cui vi versavano dell’acqua mischiata ad erbe e essenze rigeneranti, immergendosi poi nelle acque del fiume. I Mandan concepivano la poligamia, spesso a beneficiarne erano solo i capi o i ” medicine man”, che potevano disporre anche di dieci dodici mogli . Le mogli divenivano tali solo dopo aver fatto voto durante una cerimonia religiosa. Queste unioni  avvenivano solo  con l’accettazione del padre della donna di alcuni doni, in taluni casi,  e solo presso alcuni popoli,  prevaleva la volontà della donna nella scelta. Una spiegazione della poligamia vede il fenomeno legato ai frequenti conflitti: durante gli scontri con gli acerrimi nemici, parecchi uomini perivano, e così avere più mogli  garantiva maggiore continuità generazionale alla tribù. Con l’avvento dell’uomo bianco i matrimoni assunsero anche  rilevanza commerciale, se avvenivano  tra uomini bianchi e donne indiane,  le quali col matrimonio si riscattavano dal ruolo di serva,  traendone benefici, fino a tutta la durata  del matrimonio. Le donne si avvicinavano al matrimonio a quattordici-quindici anni. Loro occupazione era procurarsi l’acqua, frutti selvatici e lavorare le pelli e curare le faccende domestiche. Strani e a volte grotteschi apparivano agli occhi di Catlin i rituali  e cerimonie a cui assisteva. Un  esempio surreale e di forte impatto emotivo era sicuramente la Danza del Bisonte, utilizzata nei periodi di carestia, presieduta dal medicine man proprio per richiamare le mandrie di bisonti nei pressi del villaggio. Poteva durare anche intere settimane, con un ricambio continuo dei danzatori, i quali in ogni  loro passo o  gesto con una maschera di bisonte  sul viso ricostruivano e rivivevano momenti della caccia e seguente macellazione del bisonte catturato e ucciso. Fra i divertimenti dei Mandan vi figurava una simulazione di battaglia, in cui i ragazzi  tra i sette e quindici anni si cimentavano di prima mattina, a scopo educativo. Chi veniva colpito  in una zona vitale doveva cadere per terra e farsi togliere lo scalpo, in quell’occasione sostituito con dell’erba legata sulla testa. Al ritorno da tale impresa guerriera simulata, i giovani guerrieri raccontavano le loro gesta ai capi prodighi di lodi. Tale simulazione terminava con la danza dello scalpo. I giovani,  davanti alle loro fidanzatine, si esaltavano, lanciando urla e agitando i loro trofei di guerra. Tra le usanze religiose più sentite  dai Mandan, vi era quella di sacrificare le proprie dita e gli oggetti più belli al Grande Spirito. Nel caso di un cane sarà sacrificato il migliore, così per una stoffa , o un cavallo. La capanna della medicine ricordava per forma una figura umana, con le penne nella parte superiore e adornata con le stoffe migliori e più costose. Catlin a tal proposito descrive nelle lettere un episodio occorso durante il soggiorno in un villaggio Mandan. Si era sparsa la voce che alcuni Piedi Neri erano entrati in possesso di una pelle di bisonte bianco: immediatamente si radunarono e decisero di andare a trattare con delle  mercanzie per venirne in possesso e offrire questo grande  e raro dono al medicine per propiziarsi il Grande Spirito. Riuscirono nell’impresa. Molto importante era inoltre una cerimonia religiosa dei Mandan, svolta nella capanna della medicine, per conquistarsi la benevolenza del Grande Spirito. Le tribù che ebbe modo di visitare Catlin, credevano tutte nell’esistenza di un Grande Spirito  benigno, origine e fine di ogni cosa (Wakan Tanga tra i Sioux, Manito tra i Navajo, Manitù tra gli Algonchini, Orenda tra gli Irochesi). I Mandan credevano anche nella presenza di uno spirito malvagio, O-Kee-Heede. Credevano in una vita futura , una ricompensa eterna in relazione alla condotta tenuta da ognuno nel corso della propria vita. I Mandan erano convinti, che lo spirito malvagio e più potente  esistesse già prima dello spirito buono. L’idea che avevano del Grande Spirito, era quella che abitasse a nord, e decidesse le punizioni da infliggere ai peccatori.  Il clima rigidissimo e la mancanza di bisonti faceva pensare all’inferno, contrariamente al sud dove veniva collocato il paradiso, e dove lo spirito maligno cercava di tentare i beati. Quelli che andavano all’inferno, vi restavano  per il tempo necessario ad estirpare le proprie colpe, per   tornare poi mondati e purificati e tesi alla felicità. Per entrare in quei terreni di beatitudine e placare lo spirito buono e malvagio,  i giovani Mandan si sottoponevano a crudeltà strazianti. Altri importanti riti  erano il defluire dell’inondazione chiamata Mee- nee- ro- ha- sha “ e  la “ Danza del Bisonte “,  che  introducevano i giovani della tribù all’età matura attraverso una serie di prove di coraggio, vere e proprie torture fisiche, tese a rafforzare  muscoli e la resistenza fisica. Tali prove erano utili al capo per l’individuazione dei futuri  capi dei guerrieri. 
Parte della cerimonia è narrazione centrale nel film del 1970 "Un uomo chiamato cavallo" (A Man Called Horse) con un indimenticabile Richard Harris: la cerimonia è l' Okipa praticato dagli indiani Sioux Lakota. Così  Catlin  descrive la cerimonia tra i Mandan: “ Al centro del villaggio era situato uno spiazzo livellato, che veniva utilizzato  per le feste o cerimonie, ed intorno c’erano le capanne. Al centro dello spiazzo c’era un grande  cassone o barilotto fatto con assi di legno e tenuto insieme dai cerchi chiamato “ grande canoa  “, ad esso si presta la massima devozione poiché  rappresenta la tradizione dell’inondazione, e costituisce il nucleo delle operazioni di magia e di sacrificio". Catlin racconta che una mattina senza preavviso, capì che stava iniziando la grande cerimonia e che sarebbe stato il primo bianco ammesso alla cerimonia. Vide tutto il popolo ammassarsi sui tetti gridando, nell’attesa dell’arrivo di un uomo, il quale era ad un miglio di distanza verso ovest, e a gran passi si   dirigeva verso il villaggio. Palpabile era l’emozione,  tutti erano in allarme,  tutto fu preparato per  un combattimento, mentre quell’uomo in lontananza si avvicinava con passo regale. Arrivato nel villaggio  si fece avanti verso il centro del villaggio. Ad attenderlo c’erano i capi e i guerrieri pronti a riceverlo. Questo individuo era praticamente nudo, ma aveva il corpo ricoperto di creta , così che da lontano sembrasse un bianco, il suo nome era Nu- mohk-muck-a-nah. Dopo aver incontrato i capi e i guerrieri , proseguì fino alla “ capanna della medicine “. Vi entrò e vi chiamò due uomini per preparare la cerimonia. Nu- mohk-muck-a-nah passava per tutte le capanne gridando, affinchè il proprietario della capanna uscisse e chiedesse chi fosse e cosa facesse, lui  avrebbe risposto, che era l’unico sopravvissuto ad una inondazione,  perché aveva legato la canoa ad una montagna a ovest, dove lui viveva. Successivamente quell’uomo avrebbe detto, di essere venuto per  riaprire la  “capanna medicine “, così che nell’arco della giornata, avrebbe ricevuto accette, coltelli o altri oggetti acuminati in sacrificio per placare l’inondazione. Alla sera al suo ritorno nella “ capanna medicine “, vi lasciò gli oggetti che sarebbero stati sacrificati il pomeriggio dell’ultimo giorno della cerimonia. All’Alba della mattina seguente,  l’uomo entrò seguito dai cinquanta giovani che erano prossimi al sacrificio, tutti muniti della propria sacca medicine, distribuendosi nella capanna.   Nu- mohk-muck-a-nah incaricò per gestire la cerimonia un medicine man,  consegnandogli una pipa magica, e ritornandosene sulla montagna. La capanna appariva all’interno così: c’erano due gruppi di teschi sul pavimento uno di uomo e uno di bisonte su  un palchetto di rami sottili di legno. Fecero pendere dal tetto aperto delle corde di cuoio, e con delle schegge di legno, lì sarebbero stati appesi gli iniziandi, trapassando le loro giovani carni. Sul pavimento venivano posti quattro otri, i quali  simboleggiavano, a loro dire, l’acqua dei quattro angoli della terra sin dal principio. Gli otri contenevano tre quattro galloni d’acqua,  con sopra ognuno appoggiato un bastone, che doveva servire a percuotere i giovani, il tutto al suono ossessivo dei tamburi e dei sonagli. La cerimonia si distribuiva nei quattro giorni,  con l’alternarsi continuo e intenso della danza del bisonte, in cui si raffigurava la sconfitta dello spirito cattivo, il quale veniva con la pipa magica sfidato dal capo di cerimonia e deriso dalle donne. La cerimonia si basava su  momenti di estrema sofferenza e crudezza nel sacrificio, che consisteva nell’infilzare con un coltello le carni, e con delle schegge di legno conficcate nelle ferite sanguinanti,   issare i giovani su per una quindicina di minuti, fino allo sfinimento,  e infine questi ripresisi e rimessi a terra, dovevano essere trascinati per un tempo indefinito,  con le stesse corde da altri uomini. Un’altra importantissima cerimonia era la Danza del Sole: consisteva nello scegliere un albero, che  abbattuto,  avrebbe svolto il ruolo di palo su cui infilzare, attraverso una corda che veniva tirata,  i giovani guerrieri, come estremo atto di coraggio, e  dopo un incisione con un bisturi di artigli d’aquila, gli stessi  avrebbero danzato,  suonando  un fischietto di osso d’aquila, finché esausti  si  liberavano,  cadendo per  terra come in trance, in preda a  visioni, che acuivano il significato di collegamento dell’uomo al Sole e al Grande Spirito .  

Le corde a cui l’uomo veniva  legato,  simboleggiavano i raggi del Sole, e tanti erano i richiami al simbolo dell’ Aquila che va incontro al Sole, mentre il Sole lasciava un segno indelebile nell’Anima. Per quanto alcune cerimonie possano apparire assurde per quanto possano apparire atroci e  crudeli,  in realtà  vanno sicuramente contestualizzate nel credo religioso e quindi spirituale del popolo indiano. Il culto solitario e comunitario per il Grande Mistero era portatore della massima gioia  e del maggior appagamento esistenziale. Forte era il contatto con il Creatore, muta  e rispettosa era la venerazione, scevra da ogni egoismo, in una comunità che era basata sulla condivisione e semplicità, non macchiata dall’uso incomprensibile e immotivato  del denaro. Per l’indiano il purificante Culto del Sole ricopriva lo stesso valore della Croce per un cristiano. Come non possono fare breccia nel nostro cuore, l’amore che l’indiano nutriva per gli elementi naturali, quali il vento, l’albero, il fulmine,  l’acqua, il gelo? In una visione quasi “francescana” i fratelli del regno animale, di cui pur ci cibava, erano riconosciuti sempre con grande rispetto e il loro spirito era omaggiato.  Quanto assurdo pareva ai loro occhi costatare  che l’uomo bianco custodiva in sé ben poco di spirituale.  Il bianco proponeva la sua religione cristiana, professando disprezzo per i tanti farisei e per l’egoistico accumulo di ricchezze, ma in realtà era assai schiavo del denaro.  L’aspetto spirituale era intenso e sentito tra gli amerindi. La madre indiana legava il suo cordone ombelicale e l’essere da lei concepito alle estese  praterie e alla pace delle foreste,   sognando in preghiera,  che dalla sua creatura  originasse un grande uomo. Durante la crescita i bambini, se maschi venivano  affidati all’educazione spartana del padre,  se femmine  affidate alla nonna. Gli anziani svolgevano un ruolo essenziale per i giovani come loro maestri e consiglieri. L’unione in matrimonio avveniva in stretto contatto con la natura,   poi si procedeva allo scambio di doni e alla benedizione nuziale impartita dal sommo sacerdote. Resta ancora nei cuori dell’uomo industrializzato e “civilizzato”  una labile seppur sensata  nostalgia per la Natura che lo ha generato? nel sentirsi figli più grati di questa terra e  della  natura tutta?  Tutto ciò si è perso, ma in lontananza risuonano ancora gli echi liberi e coraggiosi di un popolo, quello delle grandi praterie e grandi distese,  che viveva a stretto contatto con la natura, in sintonia con le altre creature e con la grande immensa dispensatrice Madre Terra. Forse dovremmo seguire la via ecocentrica da Loro tracciata. (Nicola DILEO) 

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