Vivendo nel XXI° secolo , possiamo constatare di aver
cambiato il nostro modo di comunicare , di consumare e complessivamente di
vivere . La velocità e i ritmi di queste trasformazioni hanno portato l’uomo
verso la snaturalizzazione del concetto di libertà , intesa come condivisione ,
introspezione della natura, ricerca
spirituale ed espressione del libero pensiero, quale accettazione del concetto
comunitario e delle sue garanzie . A tal proposito mi sembra necessario, citare
la storia dei nativi d’America come varco essenziale per qualsiasi riflessione.
Uno dei più grandi cantori e storici delle vicende di questi popoli, è stato il pittore statunitense George Catlin
(1796-1872), il precursore di una
etnografia che è prima di tutto descrizione di usi e costumi di popoli.
Con
l’occhio di chi nutre grande rispetto e viva curiosità, veniamo catapultati attraverso
un quadro di Catlin in battute di caccia di bufalo nelle immense praterie, dove scorrevano irruenti le acque torbide dello Yellowstone e del Missouri, e scopriamo
incantati e stupiti, cerimonie e riti sciamanici,
abbigliamenti pittoreschi, volti scavati dal tempo e dalla storia, ritrovandoci
a rivivere le sue stesse emozioni, di fronte ad un popolo da lui stesso definito,
portatore di onestà e onore, bellezza e fierezza, a dispetto degli infamanti pregiudizi, ingiusti e
crudeli, ricaduti sui loro destini .
Definiti talora selvaggi, con le connotazioni più grette affibbiate a questa
parola, venivano indicati e trattati come devianti, pigri, ladri, privi di
raziocinio, o addirittura non distanti dalle bestie; grande significato hanno
invece le testimonianze di Catlin, che li definiva dotati di grande
intelligenza, eccellenti nell’igiene di un corpo ammirevole dalla forme
elastiche, inclini a spiccata spiritualità sottolineandone l’attaccamento alla
natura (oggi parliamo di culture ecocentriche). Nelle sue lettere l’artista che
ebbe a viaggiare tanto in lande sconosciute al seguito di missioni esplorative,
ci tenne a sottolineare come da sedici milioni di nativi, dopo le malattie,
dopo le guerre, il whisky e gli abomini creati e spesso voluti dall’uomo europeo
invasore, ne rimasero al suo arrivo solo due milioni.
Partiamo dal presupposto che per
nativi d’America si intendono oggi le
diverse tipologie di popolazioni
indigene precolombiane, a partire dalla lontanissima stirpe di origine asiatica
(razza mongolide) che raggiunse e si stanziò America del nord, in America
centrale e America del Sud sino alla Terra del Fuoco, così vicina
all’Antartide. Poi arrivò la colonizzazione degli europei, attuata nel Centro e Sud America dagli
spagnoli e dai portoghesi a partire dal secolo XVI, nel Nord America dagli
inglesi, francesi e olandesi, a partire dal secolo XVIII ma più decisamente nel
secolo XIX . Determinante, rivoluzionario e spesso distruttivo fu il ruolo di tali invasori
spesso di pochi scrupoli. Poco noto è per esempio che il cavallo fu introdotto
in America dagli spagnoli e che i mustang sono discendenti di cavalli
addomesticati che ebbero a inselvatichirsi: gli amerindi cominciarono a
utilizzarli modificando precedenti attitudini con grande destrezza.
Nei racconti di Catlin, nelle sue
lettere a volte apparentemente caotiche, emergono infatti chiare le ingiustizie
subite da questi popoli; Catlin colpito da tutto questo, vivrà il suo lavoro
come una missione. Osservatore attento e scrupoloso della quotidianità indiana, ne saprà cogliere gli aspetti più importanti. Nato
a Wilkes-Barre, in Pennsylvania, il 26 luglio 1796, dopo un’infanzia e una
adolescenza tranquilla, si recò nel 1817 presso lo studio di Reeves e Gould,
per essere avviato alla professione di avvocato. A Luzerne manifestò appieno la passione per
la pittura, decidendo di abbandonare gli studi di avvocatura. Da autodidatta
riuscì a crearsi una buona fama di ritrattista, con l’approvazione del padre.
Nel 1824 frequentando a Philadelphia la Academy of Art , avrà modo di vedere per
la prima volta, una delegazione di indiani : è come una folgorazione per lui, qui
inizia la sua vocazione. Dopo aver conosciuto Clara Bartlett Gregory la sposa
il 10 maggio nel 1828. Iniziò i suoi viaggi al confine e si spinse oltre, per
approfondire i suoi lavori e le conoscenze su questi popoli. Navigando sul battello di Mister Chouteaued lungo lo
Yellowstone, arrivò in un Forte prevalentemente commerciale gestito da un certo
mister McKenzie dell’American for
Company con cui strinse amicizia. Da quel momento inizierà la sua avventura
fatta di estrema abnegazione, pericolosi viaggi e povertà assoluta. Le sue
mostre composte di suoi disegni su tali popoli,
frutto di tali e tanti disagi ma altrettanta passione, incuriosirono i
tanti, persino regnanti, ma pochi
amarono come lui stesso amava, i suoi
lavori. Ci riferisce nei suoi scritti, che rilevante negli indiani era il
significato attribuito alla parola: “ Medicine “. Parola che racchiudeva tutto
ciò che per loro era misterioso, magico e sacrale. Per noi europei tale parola è associata al
significato di medico, per gli indiani “ i medici “ erano gli stregoni,
esperti in magia, da qui capiamo poi il termine utilizzato per
indicarli (“ medicine man “). Persino Catlin veniva indicato come medicine
man a causa della sua arte, per loro
inspiegabile. La “medicine bag” era
invece la loro “ sacca del mistero “, della magia, tenuta chiusa e di rado
aperta; nei momenti di pericolo, la si
invocava, chiedendone sostegno. . Per essa invocandone i servigi, a volte venivano sacrificati cani, cavalli o
venivano praticati digiuni o pene e sofferenze di vario tipo e genere . Al confine, in quel periodo, gli indiani
iniziavano, poiché derisi e dileggiati dai bianchi, ad abbandonare questa usanza,
ma nei posti allora frequentati da Catlin era ancora molto radicata, e come buon auspicio prima della
battaglia o nelle difficoltà quotidiane era fondamentale affidarsi a tali
pratiche. Quando un ragazzo dei “ popoli
“ arrivava a quattordici - quindici anni, iniziava a formare la sua “ medicine “, e
doveva abbandonare per due, tre giorni, a volte anche per più giorni, il villaggio, invocando il “ Grande Spirito”,
digiunando per tutto il tempo. In questo periodo, tra pericoli e rischi di
vario genere, addormentandosi, doveva sognare l’ “ animale “ inviatogli dal
Grande Spirito, il quale sarebbe
divenuto il suo protettore per tutta la sua vita. Tornato nel villaggio e informati gli altri di quanto accaduto, si
doveva procurare, cacciandolo, la pelle dell’animale sognato, per poi
realizzare la sua medicine bag, ornandola a proprio piacimento. Tale “ Medicine “ l’avrebbe seguito per l’intera sua vita, fino
alla morte e sepoltura. Il suo valore
per tali popoli era vitale, incommensurabile, non aveva prezzo, e un guerriero
che malauguratamente la perdeva in
battaglia, cadeva in disgrazia agli
occhi dei sui fratelli di sangue. Veniva umiliato, fino ad essere considerato in
importanza meno di un bimbo: gli si attribuivano soprannomi di “uomo senza medicine” o “uomo che ha perduto la medicine”. Solo recuperando in battaglia la medicine di un nemico,
riusciva a ripristinare l’onore perso e recuperare la propria condizione
sociale all’interno della comunità indiana. Era possibile avere solo una medicine nella vita, e se persa in
battaglia era possibile riaverne una solo in battaglia. Catlin ebbe modo di conoscere da vicino i “ medicine man” indiani, i quali ricoprivano
un ruolo sociale fondamentale nel villaggio, e venivano consultati sempre come oracoli
prima di ogni decisione. Ottima risultava la lavorazione delle pelli trattate
con acqua e cenere, lasciate ad asciugare o lavorate con processi di
affumicatura, con cui si abbigliavano e innalzavano tende, chiaro esempio di
manifattura indiana. Bellissime erano le loro chiome, soprattutto tra i popoli
dei Corvi, Sioux, Mandan, unti di grasso di orso che spesso strisciavano per terra; diverso l’aspetto degli indiani vicini
al fiume Platte quali per esempio i Sauk,
i Fox e i Pawnee, i quali si rasavano il capo completamente. Come non citare
gli Assiboine, alti, abili cacciatori, con
lunghe chiome appariscenti, che come i Dakota o i Sioux, erano conosciuti per
avere quale usanza, quella di prendere pezzi di carne dalla schiena degli
animali e farli bollire in un buca nel terreno, riempita con pietre incandescenti. Gli Assiboine avevano
tanti passatempi tra cui quello della pipa. Il capo o il medicine man si
fermava al centro del luogo, intorno ad un fuoco, intonando un canto, e coinvolgendo gli astanti,
i quali prendevano a ballare, in ruota, e ripetevano il gesto iniziale compiuto dalla
loro guida. Un altro popolo veramente interessante era quello dei Mandan,
raramente bellicosi, rispetto agli imponenti Sioux. Differivano i Mandan dagli
altri popoli per via del colore dei loro capelli, degli occhi talvolta tendenti
al chiaro, che lasciavano pensare che
non fossero indiani. Molto puliti nell’igiene personale. Le loro donne, a centinaia, protette da due sentinelle, la mattina si
lavavano immergendosi nelle fredde acque
del fiume, mentre gli uomini facevano lo stesso in un altro punto del fiume. Tornati
a casa, ungevano i propri capelli e il corpo di grasso di orso. Gli indiani del
Nord America conoscevano bene il nuoto e lo praticavano frequentemente. I
Mandan erano soliti a volte rinfrancarsi in alcune tende con dei trattamenti
termali, utilizzando pietre incandescenti, su cui vi
versavano dell’acqua mischiata ad erbe e essenze rigeneranti, immergendosi poi
nelle acque del fiume. I Mandan concepivano la poligamia, spesso a beneficiarne
erano solo i capi o i ” medicine man”, che potevano disporre anche di dieci
dodici mogli . Le mogli divenivano tali solo dopo aver fatto voto durante una
cerimonia religiosa. Queste unioni avvenivano solo con l’accettazione del padre della donna di
alcuni doni, in taluni casi, e solo
presso alcuni popoli, prevaleva la
volontà della donna nella scelta. Una spiegazione della poligamia vede il
fenomeno legato ai frequenti conflitti: durante gli scontri con gli acerrimi
nemici, parecchi uomini perivano, e così avere più mogli garantiva maggiore continuità generazionale
alla tribù. Con l’avvento dell’uomo bianco i matrimoni assunsero anche rilevanza commerciale, se avvenivano tra uomini bianchi e donne indiane, le quali col matrimonio si riscattavano dal
ruolo di serva, traendone benefici, fino
a tutta la durata del matrimonio. Le donne
si avvicinavano al matrimonio a quattordici-quindici anni. Loro occupazione era
procurarsi l’acqua, frutti selvatici e lavorare le pelli e curare le faccende
domestiche. Strani e a volte grotteschi apparivano agli occhi di Catlin i
rituali e cerimonie a cui assisteva. Un esempio surreale e di forte impatto emotivo
era sicuramente la Danza del Bisonte, utilizzata nei periodi di carestia,
presieduta dal medicine man proprio
per richiamare le mandrie di bisonti nei pressi del villaggio. Poteva durare
anche intere settimane, con un ricambio continuo dei danzatori, i quali in
ogni loro passo o gesto con una maschera di bisonte sul viso ricostruivano e rivivevano momenti
della caccia e seguente macellazione del bisonte catturato e ucciso. Fra i
divertimenti dei Mandan vi figurava una simulazione di battaglia, in cui i
ragazzi tra i sette e quindici anni si
cimentavano di prima mattina, a scopo educativo. Chi veniva colpito in una zona vitale doveva cadere per terra e
farsi togliere lo scalpo, in quell’occasione sostituito con dell’erba legata
sulla testa. Al ritorno da tale impresa guerriera simulata, i giovani guerrieri
raccontavano le loro gesta ai capi prodighi di lodi. Tale simulazione terminava
con la danza dello scalpo. I giovani, davanti alle loro fidanzatine, si esaltavano,
lanciando urla e agitando i loro trofei di guerra. Tra le usanze religiose più
sentite dai Mandan, vi era quella di
sacrificare le proprie dita e gli oggetti più belli al Grande Spirito. Nel caso
di un cane sarà sacrificato il migliore, così per una stoffa , o un cavallo. La
capanna della medicine ricordava per
forma una figura umana, con le penne nella parte superiore e adornata con le
stoffe migliori e più costose. Catlin a tal proposito descrive nelle lettere un
episodio occorso durante il soggiorno in un villaggio Mandan. Si era sparsa la
voce che alcuni Piedi Neri erano entrati in possesso di una pelle di bisonte
bianco: immediatamente si radunarono e decisero di andare a trattare con
delle mercanzie per venirne in possesso
e offrire questo grande e raro dono al medicine per propiziarsi il Grande Spirito.
Riuscirono nell’impresa. Molto importante era inoltre una cerimonia religiosa
dei Mandan, svolta nella capanna della medicine, per conquistarsi la
benevolenza del Grande Spirito. Le tribù che ebbe modo di visitare Catlin,
credevano tutte nell’esistenza di un Grande Spirito benigno, origine e fine di ogni cosa (Wakan Tanga tra i Sioux, Manito tra i Navajo, Manitù tra gli Algonchini, Orenda tra gli Irochesi). I Mandan
credevano anche nella presenza di uno spirito malvagio, O-Kee-Heede. Credevano in una vita futura , una ricompensa eterna
in relazione alla condotta tenuta da ognuno nel corso della propria vita. I Mandan
erano convinti, che lo spirito malvagio e più potente esistesse già prima dello spirito buono.
L’idea che avevano del Grande Spirito, era quella che abitasse a nord, e
decidesse le punizioni da infliggere ai peccatori. Il clima rigidissimo e la mancanza di bisonti
faceva pensare all’inferno, contrariamente al sud dove veniva collocato il
paradiso, e dove lo spirito maligno cercava di tentare i beati. Quelli che andavano
all’inferno, vi restavano per il tempo
necessario ad estirpare le proprie colpe, per
tornare poi mondati e purificati e
tesi alla felicità. Per entrare in quei terreni di beatitudine e placare lo
spirito buono e malvagio, i giovani
Mandan si sottoponevano a crudeltà strazianti. Altri importanti riti erano il defluire dell’inondazione chiamata Mee- nee- ro- ha- sha “ e la “ Danza del Bisonte “, che
introducevano i giovani della tribù all’età matura attraverso una serie
di prove di coraggio, vere e proprie torture fisiche, tese a rafforzare muscoli e la resistenza fisica. Tali prove
erano utili al capo per l’individuazione dei futuri capi dei guerrieri.
Parte della cerimonia è narrazione centrale nel film del 1970 "Un uomo chiamato cavallo" (A Man Called Horse) con un indimenticabile Richard Harris: la cerimonia è l' Okipa praticato dagli indiani Sioux Lakota. Così Catlin descrive la cerimonia tra i Mandan: “ Al centro del
villaggio era situato uno spiazzo livellato, che veniva utilizzato per le feste o cerimonie, ed intorno c’erano
le capanne. Al centro dello spiazzo c’era un grande cassone o barilotto fatto con assi di legno e
tenuto insieme dai cerchi chiamato “ grande canoa “, ad esso si presta la massima devozione
poiché rappresenta la tradizione
dell’inondazione, e costituisce il nucleo delle operazioni di magia e di
sacrificio". Catlin racconta che una mattina senza preavviso, capì che stava
iniziando la grande cerimonia e che sarebbe stato il primo bianco ammesso alla cerimonia. Vide tutto il popolo ammassarsi sui tetti
gridando, nell’attesa dell’arrivo di un uomo, il quale era ad un miglio di
distanza verso ovest, e a gran passi si
dirigeva verso il villaggio. Palpabile era l’emozione, tutti erano in allarme, tutto fu preparato per un combattimento, mentre quell’uomo in
lontananza si avvicinava con passo regale. Arrivato nel villaggio si fece avanti verso il centro del villaggio.
Ad attenderlo c’erano i capi e i guerrieri pronti a riceverlo. Questo individuo
era praticamente nudo, ma aveva il corpo ricoperto di creta , così che da lontano
sembrasse un bianco, il suo nome era Nu-
mohk-muck-a-nah. Dopo aver incontrato i capi e i guerrieri , proseguì fino
alla “ capanna della medicine “. Vi
entrò e vi chiamò due uomini per preparare la cerimonia. Nu- mohk-muck-a-nah passava per tutte le capanne gridando, affinchè
il proprietario della capanna uscisse e chiedesse chi fosse e cosa facesse, lui
avrebbe risposto, che era l’unico
sopravvissuto ad una inondazione, perché
aveva legato la canoa ad una montagna a ovest, dove lui viveva. Successivamente
quell’uomo avrebbe detto, di essere venuto per
riaprire la “capanna medicine “, così che nell’arco della
giornata, avrebbe ricevuto accette, coltelli o altri oggetti acuminati in
sacrificio per placare l’inondazione. Alla sera al suo ritorno nella “ capanna medicine “, vi lasciò gli oggetti che
sarebbero stati sacrificati il pomeriggio dell’ultimo giorno della cerimonia. All’Alba
della mattina seguente, l’uomo entrò
seguito dai cinquanta giovani che erano prossimi al sacrificio, tutti muniti della
propria sacca medicine, distribuendosi
nella capanna. Nu-
mohk-muck-a-nah incaricò per gestire la cerimonia un medicine man, consegnandogli
una pipa magica, e ritornandosene sulla montagna. La capanna appariva
all’interno così: c’erano due gruppi di teschi sul pavimento uno di uomo e uno
di bisonte su un palchetto di rami
sottili di legno. Fecero pendere dal tetto aperto delle corde di cuoio, e con
delle schegge di legno, lì sarebbero stati appesi gli iniziandi, trapassando le
loro giovani carni. Sul pavimento venivano posti quattro otri, i quali simboleggiavano, a loro dire, l’acqua dei
quattro angoli della terra sin dal principio. Gli otri contenevano tre quattro
galloni d’acqua, con sopra ognuno
appoggiato un bastone, che doveva servire a percuotere i giovani, il tutto al
suono ossessivo dei tamburi e dei sonagli. La cerimonia si distribuiva nei
quattro giorni, con l’alternarsi
continuo e intenso della danza del bisonte, in cui si raffigurava la sconfitta
dello spirito cattivo, il quale veniva con la pipa magica sfidato dal capo di
cerimonia e deriso dalle donne. La cerimonia si basava su momenti di estrema sofferenza e crudezza nel
sacrificio, che consisteva nell’infilzare con un coltello le carni, e con delle
schegge di legno conficcate nelle ferite sanguinanti, issare i giovani su per una quindicina di
minuti, fino allo sfinimento, e infine questi
ripresisi e rimessi a terra, dovevano essere trascinati per un tempo
indefinito, con le stesse corde da altri
uomini. Un’altra importantissima cerimonia era la Danza del Sole: consisteva
nello scegliere un albero, che abbattuto,
avrebbe svolto il ruolo di palo su cui
infilzare, attraverso una corda che veniva tirata, i giovani guerrieri, come estremo atto di
coraggio, e dopo un incisione con un
bisturi di artigli d’aquila, gli stessi avrebbero danzato, suonando un fischietto di osso d’aquila, finché esausti
si liberavano,
cadendo per terra come in trance,
in preda a visioni, che acuivano il
significato di collegamento dell’uomo al Sole e al Grande Spirito .
Le corde a cui l’uomo veniva legato,
simboleggiavano i raggi del Sole, e tanti erano i richiami al simbolo
dell’ Aquila che va incontro al Sole, mentre il Sole lasciava un segno
indelebile nell’Anima. Per quanto alcune cerimonie possano apparire assurde per
quanto possano apparire atroci e
crudeli, in realtà vanno sicuramente contestualizzate nel credo
religioso e quindi spirituale del popolo indiano. Il culto solitario e
comunitario per il Grande Mistero era portatore della massima gioia e del maggior appagamento esistenziale. Forte
era il contatto con il Creatore, muta e
rispettosa era la venerazione, scevra da ogni egoismo, in una comunità che era
basata sulla condivisione e semplicità, non macchiata dall’uso incomprensibile e
immotivato del denaro. Per l’indiano il purificante
Culto del Sole ricopriva lo stesso valore della Croce per un cristiano. Come
non possono fare breccia nel nostro cuore, l’amore che l’indiano nutriva per
gli elementi naturali, quali il vento, l’albero, il fulmine, l’acqua, il gelo? In una visione quasi “francescana”
i fratelli del regno animale, di cui pur ci cibava, erano riconosciuti sempre con
grande rispetto e il loro spirito era omaggiato. Quanto assurdo pareva ai loro occhi costatare che l’uomo bianco custodiva in sé ben poco di
spirituale. Il bianco proponeva la sua
religione cristiana, professando disprezzo per i tanti farisei e per l’egoistico
accumulo di ricchezze, ma in realtà era assai schiavo del denaro. L’aspetto spirituale era intenso e sentito tra
gli amerindi. La madre indiana legava il suo cordone ombelicale e l’essere da
lei concepito alle estese praterie e alla
pace delle foreste, sognando in
preghiera, che dalla sua creatura originasse un grande uomo. Durante la
crescita i bambini, se maschi venivano affidati all’educazione spartana del padre, se femmine affidate alla nonna. Gli anziani svolgevano un
ruolo essenziale per i giovani come loro maestri e consiglieri. L’unione in
matrimonio avveniva in stretto contatto con la natura, poi si
procedeva allo scambio di doni e alla benedizione nuziale impartita dal sommo
sacerdote. Resta ancora nei cuori dell’uomo industrializzato e “civilizzato” una labile seppur sensata nostalgia per la Natura che lo ha generato? nel
sentirsi figli più grati di questa terra e della natura tutta?
Tutto ciò si è perso, ma in lontananza risuonano ancora gli echi liberi
e coraggiosi di un popolo, quello delle grandi praterie e grandi distese, che viveva a stretto contatto con la natura,
in sintonia con le altre creature e con la grande immensa dispensatrice Madre
Terra. Forse dovremmo seguire la via ecocentrica da Loro tracciata. (Nicola DILEO)
E stato Bellissimo leggere Tutto e fare I disegli
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