giovedì 18 agosto 2016

ma la nonviolenza è solo una utopia? LETTERA di una studentessa





Nell'approssimarsi del 2 ottobre, data di nascita di Mahatma Gandhi e giornata internazionale della nonviolenza proclamata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite (dal 2007), riteniamo indispensabile esporre alcune idee, proprie del punto di vista umanista.La risoluzione riafferma "la rilevanza universale del principio della nonviolenza" ed "il desiderio di assicurare una cultura di pace, tolleranza, comprensione e nonviolenza".«La nonviolenza è la più grande forza a disposizione del genere umano. È più potente della più potente arma di distruzione che il genere umano possa concepire».Pubblichiamo le riflessioni di una giovane studentessa sperando in una risonanza.


ma la nonviolenza è solo una utopia?

La logica della nonviolenza è spesso additata come utopistica, come se la violenza fosse un dato di fatto monolitico  e come tale debba essere accettato senza obiezioni, costruendo, intorno a questa immutabile verità, retoriche di pseudogiustizia, di opposizione tra bene e male, di libertà, che a conti fatti si rivelano solo parole vuote, delegittimate del loro significato e purtroppo foriere di tragicità.
La nonviolenza è sì un’utopia, da non intendersi però come “qualcosa di assurdo, ma piuttosto come una possibilità non ancora esplorata e portata a compimento” [1] Essa è una visione esistenziale, e dunque politica: si delinea un nuovo modo di fare politica che si svincola dalla forma di mera lotta per il potere che le abbiamo storicamente assegnato.
Compito antropo-politico della nonviolenza è sostenere l’esistenza delle alternative resistendo alla logica impositiva delle strutture del potere. Se è riconosciuto che l’aggressività è componente umana correlata alla sua evoluzione prima biologica e poi storica, è oramai acclarato scientificamente che il suo opposto - nella antinomia - è la componente innata della solidarietà-altruismo: nel dilemma tra individuale e sociale dovremmo attivare oltre l’ego il nostro connaturato “we-go” [2](Noi). 
Tale tema andrebbe opportunamente ricordato nella programmazione di politiche europee per affrontare p.e.  gli inarrestabili e imprevisti flussi migratori e invece assistiamo o alla polarizzazione estrema dell’aggressività da una parte (vedi posizioni razziste e nazionalistiche) o all’opposto alla polarizzazione poco autoprotettiva dell’altruismo (per esempio l’assistenzialismo fine a se stesso sino al buonismo di parole).
La politica - che non si occupa di utopie ma ha comunque da perseguire un trend umanistico - ha da operare una mediazione tra gli opposti di questa antinomia aggressività-altruismo, ego-wego: una mediazione bilanciata che sia adattativa ai mutamenti storici  e trasformativa (capace di disegnare il futuro). “I prossimo duecento anni di storia saranno influenzati dai nostri atti di oggi”, ebbe a dire qualcuno in un dibattito televisivo. Vero.
La nonviolenza, quando si traduce in prassi politica, si realizza anzitutto nell’esercizio di diritti e doveri reciproci, nella reciprocità sociale, nel riconoscimento dell’Altro (che siamo anche noi), nei rapporti interpersonali, generazionali  e anche di genere: risulta, dunque, quanto più vero lo slogan femminista “il personale è politico”. Proprio il femminismo si presenta come un perfetto esempio di lotta rivoluzionaria non violenta contro la struttura granitica ereditata dal passato del potere patriarcale e maschilista; lotta che passa attraverso il non discriminare uomo e donna in campo lavorativo e sociale e non, come dai media ci è talora presentato, attraverso l’idea di donna aggressiva, violenta che per superare le “disparità di genere” deve, molto banalmente, farsi uomo. L’umanità è promiscua. Certamente sarebbe un errore operare una dicotomia per cui all’uomo corrisponde il male e alla donna il bene ma in una logica non violenta ci si potrebbe ispirare all’empatia femminile, passando anche  al “noi” tra i generi. Sarebbe un primo passo. Tatoli Martina (studentessa)





[1] Così Gino Strada (tratto dal discorso tenuto alla consegna del “Nobel alternativo”).

[2] Espressione tratta dal volume “Noi - perché due sono meglio di uno”- Massimo Ammaniti

sabato 13 agosto 2016

Settimana Medievale di Trani: CHI ERANO VERAMENTE MANFREDI & ELENA?



TRANI: città di grandi tradizioni storiche non solo medioevali ha accolto imperatori , santi, navigatori, crociati, commercianti di ogni nazione. Basti ricordare che nel 1063 ha pubblicato il primo Codice Marittimo del Mediterraneo.



ilMatrimonio di re Manfredi” nell'ambito della Settimana Medievale di Trani (3-7 Agosto 2016):
Manfredi di Svevia ed Elena d’Epiro, questi sconosciuti


Da qualche anno a questa parte a Trani viene organizzato dall'associazione Trani Tradizioni il “Matrimonio di re Manfredi”, un evento - rievocazione storica delle nozze del re e della bella Elena. Tra sfilate, cortei, tamburi, luci, musici e giullari si consuma l’evento in questione, come in altre città medioevali di Italia, in un mix "turistico" di ricostruzione storica, atmosfera fiabesca e spettacolo per famiglie.

Chi erano nella realtà storica i protagonisti della vicenda?


Tralasciando i fuochi multicolori ed i costumi sgargianti, proviamo ad entrare nella realtà storica dei due personaggi celebrati. Il luogo fisico del festeggiamento è il castello di Trani, fondato nel 1230 da Federico II Hohenstaufen, terminato nel 1249 con le opere di fortificazione condotte da Filippo Cinardo e da Stefano di Romualdo Caraberese (come riportano le due iscrizioni presenti nel cortile occidentale del castello): esso fu la dimora d’elezione di Manfredi  che qui intese celebrare le sue seconde nozze con la giovane Elena.

I due sposi

Il 2 giugno 1259 giunse a Trani una diciassettenne bella ed attesa: Elena veniva dall’Epiro e portava in dote al diletto figlio illegittimo di Federico II e di Bianca Lancia, Manfredi, Corfù e Durazzo. Il luogo scelto per i festeggiamenti fu proprio il castello di Trani: tutta la città rese omaggio alla nuova regina. Dal loro matrimonio nacquero quattro figli: Beatrice, Enrico, Federico ed Enzo. Di solito, a quel tempo, il matrimonio era una questione d’interessi e non certo di cuore: nel matrimonio feudale la sposa era subordinata al suo feudo, mentre la Chiesa la subordinava al suo sposo; il matrimonio feudale finiva per diventare un accordo tra genitori che legavano tra loro i propri figli nell’interesse della terra. Anche nelle norme federiciane, le Constitutiones Melfitanae, il matrimonio era un rapporto di alleanza che la donna aveva il dovere di mantenere tra i due gruppi familiari: la donna doveva  garantire l’uso del corpo e dei beni che portava. Così a volte accadeva , contrariamente agli obblighi ecclesiastici, che si univano in matrimonio dei parenti, allo scopo di salvaguardare la fortuna familiare. Nel caso di Manfredi ed Elena, però, il loro legame andò oltre le mere questioni d’interesse economico: Elena fu molto amata da Manfredi. Manfredi fu nominato da suo padre Federico reggente perpetuo del Regno di Sicilia, pur non avendo alcun diritto al trono perché figlio illegittimo (Federico amava molto Manfredi perché suo figlio gli somigliava molto ed ovviamente i figli legittimi dell’imperatore non gradivano affatto questa situazione). Manfredi tenne per sé la parte peninsulare del Regno, mentre suo fratellastro Enrico ebbe la reggenza della Sicilia, sebbene ancora minorenne (rimase sotto la tutela di Pietro Ruffo che però si rivelò  un pessimo amministratore, tanto che le città siciliane si rivoltarono contro di lui). 
Manfredi dovette lottare anche con suo fratello Corrado IV, re di Germania  e di Sicilia: Corrado tolse a Manfredi la giurisdizione feudale e si mise in marcia con un esercito per combatterlo apertamente. Così nel 1252 Corrado ottenne la resa di Napoli e della Terra di Lavoro dopo strenue battaglie delle città del Regno che appoggiavano Manfredi, ma  morì improvvisamente nel 1254 e Manfredi fu sospettato d’averlo ucciso; il suo erede legittimo era suo figlio di due anni, Corradino.
A questo punto Manfredi concluse alcune trattative segrete avviate precedentemente con il papa: diventò, così, vassallo del re di Sicilia, Edmondo Lancaster, di nomina papale, quindi anche vassallo del papa. Il papa, forte di questi accordi, scese a Napoli con l’intento di indebolire il governo di impianto normanno-svevo, ma fu tradito da Manfredi, il quale non solo non firmò il patto, ma organizzò il suo esercito musulmano di Lucera ed inflisse una prima grande sconfitta alle truppe papali.
I baroni siciliani riconobbero a Manfredi il titolo di re (rifiutando sia il Lancaster sia Corradino): Manfredi accettò così la corona e ripristinò le modalità assolutistiche di suo padre nel Regno ed inoltre, imitando le mire espansionistiche di Federico II, volle fare sue le città ghibelline del Nord ed alcune zone del bacino del Mediterraneo. Per ottenere questo scopo si servì delle collaudate strategie matrimoniali: diede in sposa al principe Pietro d’Aragona sua figlia Costanza e cercò l’alleanza con il re d’Epiro, Michele II, sposandone in seconde nozze la figlia Elena (erede dell’impero d’Epiro).
Per un decennio fu un protagonista indiscusso, ma, quando divenne papa Urbano IV, francese, il suo destino pareva già compiuto: il nuovo papa offrì il Regno di Sicilia a Carlo d’Angiò. Anche il successore di papa Urbano, Clemente IV, appoggiò la politica del suo predecessore e nel 1266, a gennaio, incoronò in San Pietro Carlo re di Sicilia.

Il triste epilogo e la battaglia di Benevento (1266)


Purtroppo, però, la sorte della dinastia sveva terminò il 26 febbraio 1266 con la sconfitta e l’uccisione di Manfredi, nella battaglia di Benevento: il papa Clemente ordinò di riesumare il corpo di Manfredi e di seppellirlo in terra sconsacrata, in riva ad un fiume, sotto la sabbia, così che le ossa potessero essere disperse dalle acque . L’evento fu descritto da Dante nel  Canto III del Purgatorio: << Io mi volsi ver' lui e guardail  fiso: biondo era e bello e di gentile aspetto, ma l'un de' cigli un colpo avea diviso […] Io son Manfredi, nepote di Costanza imperadrice…>>; qui Dante immagina che Manfredi lo preghi di far conoscere la sua vera condizione alla figlia Costanza, una volta tornato sulla Terra; egli racconta la storia della sua morte nella battaglia di Benevento e la preghiera finale di pentimento a Dio. 


Inoltre Manfredi rivela l’ingiusta persecuzione che l’arcivescovo di Cosenza fece contro le sue spoglie, dissotterrate e disperse per ordine di Clemente IV. Sua moglie Elena apprese la notizia della sua morte mentre si trovava nel castello di Lucera; le venne reso noto anche della profanazione e depredazione del cadavere. Subì l’abbandono ed il tradimento di tutti i suoi fedeli, eccetto una coppia di tranesi, Munaldo e Amudilla, che l’aiutò a rifugiarsi nel castello di Trani, nell’attesa di tornare in Epiro e salvarsi. Nel frattempo, però, l’imperatore di Bisanzio aveva spodestato suo padre in Epiro e la bella Elena fu scoperta nel castello tranese e fu imprigionata, paradossalmente, in “casa” sua, in quello stesso castello che l’aveva celebrata come giovane sposa di Manfredi; le furono anche tolti i figli: Beatrice fu imprigionata a Castel dell’Ovo, a Napoli, ed Enrico, Federico ed Enzo a Castel del Monte. 
Castel del Monte si ritrovò ad essere anche prigione dei 3 figli maschi di Manfredi

Beatrice riuscì a liberarsi solo diciotto anni dopo in seguito alla rivolta del Vespro e partì per la Sicilia, dove viveva la sua sorellastra Costanza; Elena morì nel castello di Lagopesole, dove era stata portata da prigioniera, nel 1271, a ventinove anni.
Questa, in breve, la storia dei due sposi, una storia che è il prodotto del suo tempo e che è ben lungi dall’ambientazione fiabesca ed incantata che avvolge le giornate tranesi di celebrazione di queste nozze medievali. (Rosa Maria Ciritella)


mercoledì 3 agosto 2016

ELOGIO DELLA FOLLIA 30: PARLA ERDOGAN, SULTANUS DIXIT


Silentium est aureum sed Sultanus dixit atque nequeo tacere. 
Il silenzio è d'oro ma il Sultano parlò ed io non posso tacere.

Le mie risposte pubbliche sono generalmente tardive in quanto mi piace distanziarmi dalle emozioni evocate dagli eventi, prendere fiato (sono vecchio) e riflettere. Da poco è uscita la intervista che il signor Erdogan ha “rilasciato” alla RAI, in particolare alla giornalista italiana Lucia Goracci. Vengo dal passato europeo ma oramai comincio ad intendermi - io Erasmo da Rotterdam - di come i presenti cercano di comunicare attraverso i media.
Bravino questo Recep Tayyip Erdoğan: coraggioso il livello di non-risposte fornite alle domande circostanziate della giornalista; efficace la capacità di manipolazione comunicativa sostenuta più da rabbia di sapore genitoriale che da un carisma di cui tutti i leader con tendenze spiccate al totalitarismo sono capaci. 
Ma voglio rivolgermi direttamente a Lei, signor Erdogan. Non ho paura di confrontarmi perché da noi la Libertà è di casa. Naturalmente è facile per Lei rispondere all'intervistatore così, in maniera solenne e contemporaneamente arrogante; è facile quando si gioca in casa e in "casa del potere”. Facile è per una persona arroccata su posizioni fondamentaliste essere sprezzante dinanzi ad una donna che ha solo l’arma della penna (che anche Lei teme se è vero che “spariscono” tanti giornalisti in Turchia). E Lei di donne ne ha vilipese tante nella intervista: la Lucia Goracci (doppiamente biasimevole in quanto donna e giornalista) e persino la Federica Mogherini che, malgrado donna, è il prestigioso capo della diplomazia europea. Mi chiedo come sarebbe stata la intervista con Oriana Fallaci, capace di intimorire personaggi del calibro di Khomeyni, quando non esisteva il politicamente corretto. Ma non divaghiamo.
Dapprima, ammetto (ma forse sono ancora ingenuo per voi del terzo millennio), nella perplessità iniziale e nella confusione del Golpe turco, ho pensato che fosse realmente accaduto quanto ci veniva trasmesso o per lo meno che fosse una reale scossa al sistema imperante oggi in quella landa che ai miei tempi era l'Impero Ottomano. Poi, rivedendo con quanta rapidità il sisma si sia ridotto ad una prevedibile tragedia per gli insorti, allora il sospetto di assistere ad un gioco di prestidigitazione  si è fatto strada nelle nostre menti. Non abbiamo prove, certo signor Erdogan, che il Golpe sia stato proprio orchestrato ma abbiamo il sospetto che sia servito più a Lei che agli insorti. Vede, è sospetta anche la rapidità con cui si sia ristabilito l’Ordine. Ordine è una parola grossa e subito i governanti dell'Europa, dopo un imbarazzante silenzio, Le hanno persino mostrato solidarietà. Lei ha compreso che la solidarietà non era propriamente espressa nei Suoi confronti? Il timore che gli insorti fossero più fondamentalisti di Lei ha bloccato molte capitali europee. Poi è arrivato precoce ed implacabile l'Ordine:    quell’ordine di tombe, di regole imposte, di arresti così ben concertati ed organizzati in poche ore. Non c’è che dire, abbiamo visto dall'estero una macchina ben oleata ed addestrata. La tabula nigra, mi scusi, volevo dire la blacklist era già pronta da tempo? forse fremeva sul tavolo. Occorreva uno stimolo-evento? Ecco profilarsi la occasione. 
Un dictator che sfugge al rovesciamento ed al declino mortale è portato a riflettere (abbiamo già visto gli occhi “persi" e vitrei di Mussolini, di Ceausescu, di Gheddafi e tanti altri). Lei no: nessun turbamento. Qui, nel caso del Suo sguardo, vi è la fierezza (premeditata?) della vendetta. La Storia, signor Erdogan, mente di rado. Non condanniamo facilmente da noi ma non assolviamo sic et simpliciter (lo dica a Suo figlio che vorrebbe proteggere con il Suo potere anche fuori dei confini turchi). E sia ben chiaro che noi amiamo e stimiamo il popolo turco, come amiamo e stimiamo ogni popolo della Terra, fin quando non si renda responsabile di atti disumani. 
Ma torniamo alla intervista a dire il vero un poco unidirezionale. Ora Lei obietterà che noi Europei siamo stati sempre arroganti e forse è anche vero. Ce la crediamo un poco troppo culturalmente e politicamente: scusateci ma la democrazia, Ius e Iustitia sono nati e cresciuti qui e da qui espansi altrove. E' vero, noi europei (ma non volevate entrare in Europa, grazie alla parte europea di Costantinopoli-Istambul?) talora sembriamo troppo sicuri e talora stupidi (come è capitato con Hitler p.e.) ma Le assicuro che non lo siamo: abbiamo solo la educata presunzione che il nostro senso di libertà possa essere condivisibile dagli altri. Non siamo scemi e neanche facilmente domabili come qualcuno crede.
Ergo, signor Erdogan, faccia un passo indietro. Lei che ha bacchettato l'Europa con frasi decisamente poco diplomatiche e sulla base di un preciso ricatto politico ("apro il rubinetto degli immigrati e dei terroristi", per intendersi); Lei che ha offeso donne e l'Italia ricordandoci il problema della Mafia e della Loggia P2; Lei che ci ha fatto la lezione in diretta di svelarci quante e quali nazioni al mondo prevedano le esecuzioni capitali; ascolti un suggerimento sulla pena capitale. Faccia attenzione a restaurare quanto la saggezza e sapienza laica di Ataturk aveva allontanato dalla civiltà turca. Non vorrei che un domani la ripristinata pena capitale dovesse ricadere sotto forma di lama sul Suo capo (come succedeva ai generali ottomani quando venivano sconfitti in battaglia). Si sa, dictatores non durano mai tanto. Rimango a Sua disposizione per chiarimenti, Erasmo da Rotterdam.


R. Magritte - Le Savoir La porta Socchiudo la porta: s'intravede la luce La via non è fuori  È nel buio più intenso  nella parte più osc...