domenica 25 febbraio 2018

CI HA LASCIATI FOLCO QUILICI, un ULISSE imperituro




Folco Quilici è stato un documentarista, esploratore e scrittore italiano, attivo nella divulgazione naturalistica fin dagli anni Cinquanta del XX secolo. E' stato per l'Italia quello che è stato Jacques-Yves Cousteau per la Francia.


"Tutta la vita ho viaggiato per dimenticare il mio inconscio - aveva detto in una intervista a Repubblica - Certo, non è la stessa cosa immergersi in una vasca da bagno e in un mare infestato dagli squali. Se l'ho fatto è stato esclusivamente per dare un'emozione a chi quelle cose le ha sempre sognate senza averle mai viste. Parlo degli anni Cinquanta e Sessanta. Oggi ci interessa meno il meraviglioso, l'inedito, l'irraggiungibile. Pretendiamo però di salvare il pianeta. Comodamente seduti in poltrona!" .



Il Ministro Franceschini: «Sempre avanti rispetto ad altri» 


«Con Folco Quilici se ne va una delle figure più importanti del giornalismo, del documentarismo e della cultura italiana. Un pioniere in tutti i progetti che ha avviato, sempre anni avanti rispetto agli altri, un italiano innamorato del proprio paese e un ferrarese innamorato della propria terra in cui era l’erede della grande tradizione giornalistica del padre Nello». Così il ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Dario Franceschini, ricorda il documentarista e scrittore morto oggi. «Ci mancherà - sottolinea Franceschini - ma i suoi lavori resteranno per sempre come guida e insegnamento per le giovani generazioni». 
Verissimo. 

Ci mancherà molto. Ha influenzato le nostre vite giovani e non più giovani.

Di lui conserviamo documentari di grande interesse etnografico, la biografia ineccepibile, le sue Opere,  il suo sapere "eco-centrico". Non dimenticheremo  il suo sorriso, sempre sereno tra qualche ruga. Come quello grato dell'amerindio che  cavalca la Natura e ringrazia ogni giorno il Grande Spirito.(am)

Faber navalis di Maurizio Borriello: esiste ancora il maestro d’ascia



Costruire una imbarcazione è una sfida millenaria per l’uomo. 


Ricordo che anni fa, nel 2008 forse, cominciai un seminario di etnoantropologia per il SIEB mostrando un documentario presente tra gli extra di un film poco noto del 2006:  “10 canoe”. Affascinato dalla cultura degli aborigeni (Australia), Rolf de Heer (già regista del più famoso “The Tracker”) si  spinse oltre con il film  “10 canoe”, co-prodotto dalla italiana Fandango, mettendo in scena una storia arcaica, concepita in collaborazione col popolo di Ramingining e interpretata esclusivamente da nativi australiani. Tanto ma tanto tempo fa, in un territorio del Nord dell'Australia. la Terra di Arnhem.  
Feci visionare il lungo lavoro (a tratti noioso) occorrente per costruire una semplice canoa, tratta da un pezzo unico di legno. Tanto tempo e pazienza: serpeggiava la irrequietezza tra gli studenti, abituati ai tempi convulsi degli script cinematografici americani. Riuscii nell’intento di far comprendere come i ritmi di natura e delle popolazioni allo stato di natura (oggi ben poche) siano ben diversi dalla visione del mondo industrializzato che riteniamo l'unica possibile.




Dall’albero alla canoa. Dalla canoa alla barca.


Tutto mi è ritornato alla mente visionando il documentario Faber navalis (2016) di un italiano che si è trasformato da etnoantropologo in un maestro d’ascia assai peculiare, che ha studiato tecniche di costruzione in tutto il mondo. Parliamo del campano Maurizio Borriello. Il filmato di trenta minuti è presente su You Tube e consigliamo di visionarlo in silenzio, senza fretta superficiale  da “social”. 
Il titolo del mio film Faber Navalis  spiega l’A. - significa in latino Costruttore Navale: parole in una lingua antica per pronunciare una dichiarazione d'amore pubblica per un mestiere antico.
Ho realizzato questo film nella speranza di stimolare una discussione sull'importanza della preservazione dei saperi tecnologici delle tradizioni marinare e delle imbarcazioni in legno (classiche, da lavoro, storiche, ecc.). Sento come dovere morale mobilitarmi per il recupero e la salvaguardia del patrimonio marittimo mondiale e quello della nostra penisola. La Cultura, la Storia, la Geografia dell'Italia è il mare che la circonda!”

 
(foto di Sergio De Riccardis)


Maurizio Borriello nasce a Napoli nel 1974. È laureato in Lingue e Civiltà dell'Oceano Indiano. Parla indonesiano-malese, hindi ma anche swahili, il che gli ha fornito nei lunghi soggiorni in Asia e Africa Orientale "accesso ai saperi del mare" (come ha ben scritto Carla Pagani su Nautica di Febbraio 2018). Dopo aver condotto diverse ricerche di etnoantropologia in Indonesia, Africa Orientale e India si trasferisce in Indonesia dove insegna presso la National University of Jakarta. Dal 2005 al 2006 lavora come volontario alla ricostruzioni delle imbarcazioni di pescatori distrutte dallo tsunami. Negli ultimi sette anni vive in Scandinavia di cui gli ultimi quattro in Norvegia dove restaura barche di interesse storico presso il museo marittimo. Ha imparato dappertutto, ha nella borsa degli attrezzi strumenti di tecnologie e culture lontane che non si conoscono ma sono accomunate dal lavoro sul mare. 

"Per capire davvero bisogna iniziare a fare"


Da quest’anno nelle scuole italiane si dedica l’11 Aprile alla Giornata del Mare. Maurizio Borriello saprebbe coinvolgere le platee di studenti più con il fare che con il dire. E’  pragmatico oltre che uno studioso. Ricorda la concezione dell’architetto  della definizione vitruviana:  l’architetto doveva essere istruito nelle lettere, nel disegno, nella geometria, doveva conoscere la storia, avere studiato la filosofia, intendersi di musica e anche avere qualche nozione di medicina, di giurisprudenza e di astronomia (Vitr., De arch., I, I). Tale concezione dell'architettura come di una scientia implicante alti e complessi studi, che deriva in Vitruvio dall'alto livello culturale dei grandi a. ingegneri del mondo ellenistico, è probabilmente utopistica per il mondo romano, pur non essendo teoricamente nuova (così docet la Treccani). Un sapere articolato e complesso che si traduce nel mondo romano in un fare sapiente.  
Architectus, dal greco ἀρχιτέκτων, capocostruttore, è parola introdotta in Roma dalla Grecia e che leggiamo per la prima volta in Plauto. In epoca tarda il termine architetto sembra degradarsi quasi a significare anche capomastro. L’ Architectus navalis può essere sia l'architetto di opere portuarie (cfr. Cic., De orat., i, 14), sia il progettista e costruttore di navi (C.I.L., XII, 723; X, 5371), forse direttore di quei  fabri navales, il cui spirito aleggia nell'opera sincretica  di Borriello.
Faber Navalis  è stato proiettato in festival di tutto il mondo riscuotendo consensi e premi:
Napolifilmfestival, Festival Troia teatro, Focus festival NY, Tieff ecc Tra i premi ricordiamo:
       San Francisco International Ocean Film Festival (USA) – (WINNER: IOFF 2017 MARITIME AWARD)
       IntimateLens – Festival of Visual Ethnography (Italy) (Special Mention)
       Open Art Short Film Festival (Germany) (2nd prize for Best Director of Photography and 2nd prize for Best Fine Art Film).


Il fascino di questo documentario origina dalla concretezza della passione secolare;  deriva dal fatto che il film non mira a raccontare come tecnicamente sia costruita la barca (di tali documenti è piena la Rete), ma descrive uno stato mentale, un’esperienza creativa che trasuda sensorialità. Il maestro d’ascia amplia la propria coscienza, percepisce ed è percepito dal legno, ascolta e carezza, tocca ed è toccato in un tutto unico, un set sistemico che trasmette serenità e compiutezza del Sé. Forse dopo l'Arco Zen di Eugen Herrigel, la Motocicletta Zen di Robert Pirsig ci mancava una Barca Zen. Ora l'abbiamo. (achille miglionico)













giovedì 8 febbraio 2018

L’ALBERO DELL’OLIVO E IL SUO FRUTTO : TRA MITO E STORIA, TRA ANTICHITA’ E PRESENTE


La Dea Atena, in gara con il dio del mare Poseidone per il dominio dell’Attica, portò la pianta dell’olivo, sull’Acropoli. Dal legno dell’olivo venivano intagliate figure divine, care agli Dei. Dal boschetto di alberi d’olivo sacro in Olimpia ai rami o corone di olivo offerte ai vincitori dei giochi olimpici, mentre a Roma il ramo di olivo era anzitutto il simbolo della Dea della Pace, ma anche nei cortei trionfali dei soldati vittoriosi, corone di rami d’olivo offerti alla Dea Atena (lat. Minerva), che era anche Dea della guerra. Gli ambasciatori imploranti pace e protezione  portavano spesso in mano rami d’olivo e bende di lana. Tanti i riferimenti biblici: dalla colomba di Noé (dopo il Diluvio)  che recava col becco, nel segno di una ritrovata pace con la divinità, un ramo d’olivo, all’uso sacro e simbolico, in riti e cerimonie sacre, con unzioni battesimali e/o trattamenti terapeutici, dell’ olio.  
‘ …. Quando l’olio viene ben governato, dà l’atteso frutto della pace. Così quando un regno viene piantato bene, la pace si diffonde in ogni classe. ‘ 
Misterioso e affascinante il Mito, altrettanto avvolgente e incredibile la sua Storia, ancor più indietro negli anni. Infatti in  numerosi scavi archeologici, per quanto riguarda l’Italia, la presenza di noccioli di oliva ritrovati, fanno risalire la presenza dell’Olivo al Mesolitico (era Preistorica). Ciò attesta la sua presenza, e non una sua, conseguenziale, coltivazione e sfruttamento agricolo del prodotto. Di sicuro, tale passaggio avrà richiesto un lungo periodo. Si è appurato che popoli mesopotamici e gli Egizi conoscevano e ne apprezzavano i frutti. 
Recenti studi e scavi permettono di affermare che già, fra l’ VIII e il VII sec. a.C. non solo la coltivazione era diffusamente praticata, ma esistevano colture organizzate.  I Greci conoscevano infatti diverse varietà di olivi selvatici (es.: Agrielaia, Kotinos, Phulia), mentre i Romani usavano denominarle tutte sotto il nome di Oleaster, che poi è il termine di derivazione moderna.
La trasformazione dell’Oleaster in olivo domestico probabilmente avviene ad opera dei Siriani. In breve tempo il coltivare l’olivo si diffuse dall’Asia Minore in tutte le isole dell’arcipelago e quindi in Grecia. Particolarmente ricca di oliveti era l’Attica ed in particolar modo, la pianura Ateniese. L’olio Attico era considerato tra i migliori, ma tante erano  le qualità presenti (es.: oli di Cipro, di Sarno, di Cirene, dell’Eubea, etc). Ricca di oliveti era la pianura di Delfi, sacra ad Apollo. Della Magna Grecia , le zone piu’ floride in cui si coltivava l’olivo, erano la piana di Sibari e Taranto.
Largo uso dell’olio se ne faceva per i fini più diversi, non solo per uso alimentare, ma anche a sancire con riti l’apertura dei Giochi, di funerali, nei bagni pubblici, e nella vita quotidiana, il cui impiego divenne necessario, e a seconda dell’uso, si raccoglievano in periodi diversi.  Acerbe (olive albae o acerbae), non del tutto mature (olive variae o fuscae), mature (olive nigrae). Si staccavano dagli alberi con le mani, una ad una, o con lunghi bastoni flessibili, per quelle poste in alto, che venivano poi raccolte da terra da aiutanti. Procedure giunte fino ai giorni nostri, prima dell’avvento delle macchine scuotitrici.
Nell’ambito alimentare è stato sempre, fin dall’antichità classica, uno dei principali prodotti usati, sia per cucinare, che per condire insalate o cibi. Per tale uso, ovviamente, veniva usato l’olio migliore. Gli storici:  Plinio, Strabone, Orazio, Marrone nei loro scritti ne rimarcarono le proprietà, tessendone gli elogi. L’olio, non essendo raffinato, veniva salato, per salvaguardarlo e non renderlo, di conseguenza, particolarmente rancido. Pertanto era necessario coglierle ancora verdi sull’albero e riporle sott’olio. Marziale nei suoi scritti elogia le olive, affermando che in epoca imperiale si servivano in tutte le cene, e venivano gustate durante l’intero pasto, come antipasto o finito di mangiare, quando ci si intratteneva a bere.
Di solito, venivano conservate in salamoia, ben coperte dal liquido, per poi usarle per i vari usi: marinate in aceto, per le conserve, quelle più pregiate e più grosse o quelle nere, o semplicemente sotto sale con bacche e semi di finocchio. Columella, Plinio e Catone, ed ogni scrittore latino che trattava di olio ed olive hanno lasciato numerosi scritti, sia sulla coltivazione dell’olivo sia sulla sua produzione: raccolta, lavorazione ed usi.

Gli olivi quasi non richiedono cura; non aspettano
La falce ricurva e i tenaci rastrelli una volta
Che si sono abbarbicati alla terra e levati all’aria;
lo stesso terreno, se scisso da un dente adunco, fornisce
umore bastevole, e lavorato dal vomere pesanti frutti.
Nutri perciò il pingue olivo gradito alla Pace

Virgilio, Georgiche, libro II, (420-25)

L’olio si otteneva dalla torchiatura. Ne usciva piuttosto denso, e per farlo diventare più fluido, si riscaldava l’ambiente, per evitare che si rapprendesse.
Gli autori antichi attraverso i loro scritti, completi spesso di splendide incisioni in rame, descrivevano in ogni aspetto ed uso, le macchine usate dai Greci e dai Romani per la torchiatura delle olive. Il Columella (I sec. d.C.) descrive minuziosamente il frantoio romano, molto simile a quelli usati in età moderna, costituiti da:
-       Base in muratura
-       Sottomola
-       Disco della mola
-       Stanga con finimenti, per imbrigliare l’asino sottoposto alla mola.
Dopo la frangitura, le olive venivano pressate tramite presse a trave. Si usava tale pressa per frangere grandi quantità di olive, quando si trattava di quantità limitate invece,  si usavano altri metodi come la pressa a vite.
L’olio raccolto veniva messo a decantare in vasche prima di procedere alla raccolta finale del prodotto.
A Creta (nel periodo minoico: 1880 – 1500 a.C) appartengono i resti più antichi emersi dagli scavi di una pressa a trave e di un bacino per schiacciare le olive. Nelle isole Cicladi  (periodo elladico: 1600 – 1250 a.C.) altro ritrovamento di pressa a trave. Dopo il 1000 a.C. più frequente è l’uso delle presse e i relativi ritrovamenti.
Ai tempi nostri, nel solo Mediterraneo, vi sono più di mille tipi genetici  di olivo. Nella sola Italia  circa 500 tipi genetici.
Adesso come allora, il ruolo dell’ albero dell’Olivo e dei suoi frutti ha un ruolo centrale nell’alimentazione, nell’economia e nella cultura di un Paese, e nella nostra Puglia, duramente provata in questi ultimi anni dal batterio della Xylella, ha un ruolo determinante, anche di relazione tra popoli e culture e tradizioni diverse.

“ E la vita  è così forte che attraversa i muri per farsi vedere. La vita è così vera, che sembra impossibile doverla lasciare. La vita è così grande, che quando sarai sul punto di morire, pianterai un ulivo convinto ancora di vederlo fiorire “. (Roberto Vecchioni)



Dileo Nicola



A proposito di biotestamento: riflessioni di una Amica






-Ma tu ci hai mai pensato alla morte? 



-Ma tu ci hai mai pensato alla morte?- mi ha chiesto quella mattina, al bar dell’oncologico, il mio amico in terapia -bah, qualche volta si- rispondo con lo sguardo basso, oscillando con la testa per concentrarmi ed entrare in empatia con lui. E si, perché il mio amico Andrea ci sta pensando da parecchio alla morte. E’ al quarto ciclo di chemio e le cose non vanno affatto bene. Quando viene in ospedale, sale a trovarmi in ufficio e ci beviamo un caffè, io e lui, come se fossimo in centro, tra la folla degli acquisti e del passeggio e non tra i malati pallidi e i camici in pausa.
Lo guardo materna e, con fare interrogativo, gli poggio una mano sulla spalla -hai paura Andrè?- gli chiedo   -ho una fottuta paura di stare male; non della morte in sé, eh- mi risponde guardandomi dritto negli occhi -ho proprio paura di soffrire. Questi dolori mi distruggono il corpo e l’anima, a volte non sono più io, sono rabbioso, stanco, morto- risponde amaro.
Lo accompagno lungo il corridoio, tenendolo a braccetto e scorgiamo la piccola cappella prima dell’uscita dalla clinica. Mi sento stringere il braccio e Andrea dice a bassa voce -speriamo che si muovano a fare qualcosa per noi malati- volge lo sguardo in alto e io quasi non riesco a distinguere se stia alludendo ai Santi dipinti sulla parete o ai politici di Montecitorio. -Tu curati intanto- gli dico accennando un sorriso -che prima o poi tutto si aggiusta- Non sono affatto convinta delle mie parole e lui lo sa. Ci abbracciamo forte.
E’ passato qualche giorno e una sera, al termine delle mie ore di ufficio, torno a casa e accendo la tv per vedere il telegiornale. Squilla il telefono, tolgo l’audio al televisore. -pronto, Andrea?- dall’altra parte la sua voce soddisfatta -hai visto amica mia che ogni tanto qualcuno ci pensa dall’alto?- Non lo seguo, sono stanca e affamata e distrattamente vedo scorrere sullo schermo l’immagine di Emma Bonino che si asciuga le lacrime nell’aula del Senato. -E’ fatta, non abbiamo l’eutanasia o il suicidio assistito ma almeno il biotestamento è Legge; te lo avevo detto che qualcuno prima o poi a noi ci avrebbe pensato- continua con tono eccitato all’altro capo del telefono.
E’ un attimo. Scorgo i titoli, realizzo.

Essere liberi di lasciare liberi è il segno del divino che c’è in ognuno di noi


E’ il 14 dicembre 2017, a 10 anni di distanza dalla morte di Piergiorgio Welby, a 8 anni dalla scomparsa di Eluana Englaro e a pochi mesi da quella di Dj Fabo, il Senato ha approvato in via definitiva la legge sul biotestamento che entrerà in vigore il 31 gennaio 2018. Pochi punti per tutelare la libertà di ogni persona di scegliere se acconsentire a ricevere o rifiutare i trattamenti sanitari in caso di condizioni gravi di salute. Il giorno dopo la notizia è su tutti i giornali.
Leggo gli 8 articoli del Testo di Legge. Parole come Divieto di ostinazione irragionevole nelle cure; Dignità nella fase finale della vita; Tutela alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona; possibilità di coinvolgimento da parte del paziente dei familiari o della parte dell’unione civile o del convivente; Rispetto; Alleviare le sofferenze; Sedazione palliativa; possibilità di esprimere Disposizioni anticipate di trattamento e  Pianificazione condivisa delle cure; leggo che  l’Autonomia decisionale, il Rispetto delle volontà e la Libertà di scelta non sono solo parole ma un dovere morale e istituzionale…una Legge!
Penso agli uomini e alle donne con patologie gravi, a me, ai miei genitori, ai miei nipoti, ai miei amici. Penso a tutti noi esseri umani, per cui la finitezza è l’unica certezza. Quanto possiamo essere infiniti quando riusciamo ad allargare i confini della nostra mente e sfondare le barriere della irragionevolezza dando spazio ai grandi valori, alle emozioni, al buonsenso. Perché, se è vero che “La mia libertà finisce dove comincia la vostra” (M. L. King), allora gestire la morte senza ostinazione alla vita può essere una scelta; essere accompagnati da chi ci ama nei luoghi di cura può essere un diritto; lenire il dolore addormentandosi dolcemente è una possibilità reale per tutti noi.

Penso per un attimo che, anche solo una volta nella vita, quando votiamo, quando scegliamo, quando “sentiamo” che il diritto dell’altro è anche il nostro diritto, è in quel momento che voliamo alto rispetto alla nostra mortalità e ci avviciniamo a Dio (chiunque Egli sia) che ci ha dato la libertà di decidere e di essere; perché a prescindere dall’essere credenti o meno, come ha detto R. Steiner, (quaderno di appunti, 1892) « Anziché la fede in Dio, io credo nell'uomo libero” ed essere liberi di lasciare liberi è il segno del divino che c’è in ognuno di noi. (barbara palladino)

R. Magritte - Le Savoir La porta Socchiudo la porta: s'intravede la luce La via non è fuori  È nel buio più intenso  nella parte più osc...