HAI MAI MANGIATO UNA POESIA?
LA CAMERIERA DI POESIA È A SERVIZIO IN CITTÀ
A
Corato, dal 17 settembre al 17 ottobre, in Piazza di Vagno è possibile
prenotare gratuitamente il proprio posto per assistere alla performance “La
cameriera di poesia” di Claudia Fabris, organizzata nel contesto del festival
“Verso Sud”. Ho provato in prima persona la performance e di seguito le mie
impressioni su questa esperienza.
CORATO,
23 SETTEMBRE- Avevo
prenotato il mio posto per il turno delle 18. Arrivato in piazza, dopo qualche
minuto di attesa, compare, dal buio delle scale fino ad affacciarsi in piazza,
Claudia Fabris, che ci accoglie, ci saluta e ci porge subito i menù. La
performance funziona così: dapprima, si prendono le ordinazioni “poetiche”. Sul
pieghevole che ci è stato offerto si possono trovare antipasti, primi piatti,
piatti unici, dolci e “parole sotto sale”, il vocabolario che l’artista sta
scrivendo dal 2013. La “cameriera” ci spiega che gli antipasti sono poesie
molto brevi, i primi piatti sono poesie di media lunghezza, mentre i piatti
unici sono poesie più lunghe e se ne ordina una per tutti i partecipanti. I
dolci, invece, sono poesie accompagnate da musica, cantate o con doppia voce.
Ogni sezione del menù si divide in piatti “della casa”, cioè scritti originali
di Claudia Fabris, “classici” e “contemporanei”. «È un pasto comunitario»
avverte, quindi ciò che ciascuno ordina sarà “mangiato” anche dall’altro.
Una
volta prese le ordinazioni si scende in questo locale sotterraneo tutto di
pietra. Decorato e accogliente, pieno di lucine che offrono punti di luce
ambrata e calda, libri, piccole candele, lettini e sedie a sdraio. Al centro vi
è una grande libreria che fa il paio con quelle poste alle pareti laterali,
mentre a un lato c’è un piccolo banco, con mixer e microfono, che è la
postazione della “cameriera”.
Ci
porge delle cuffie: ecco spiegato come avverrà la performance. Claudia Fabris
ci leggerà le poesie da noi ordinate, mentre noi staremo tutto il tempo
accomodati sul letto o sulla sdraio, liberi di goderci il momento come
preferiamo.
L’atmosfera è molto rilassata, è evidente la cura, materiale e
immateriale, dell’artista nel metterci a nostro agio, così mi siedo sul letto.
Accendo la cuffia e la performance comincia. La voce calda e ammaliante di
Claudia ci introduce al servizio con “pane” e “coperto”. La voce si accompagna a
dei suoni naturali e registrazioni di voci di altri poeti.
Poco
dopo prendo coraggio e sprofondo nel letto, ho gli occhi chiusi ma
forzatamente, il corpo è rigido, mentre nelle mie orecchie le parole incalzano.
Poi, pian piano qualcosa succede: il corpo è morbido, gli occhi- che prima
serravo e poi riaprivo- si chiudono spontaneamente, con grazia e dolcezza.
Le
immagini della poesia iniziano a crearsi dentro di me, le vedo. Senza che io lo
voglia, visualizzo le immagini suggerite dai vari componimenti. Tutto accade in
modo immediato e senza il coinvolgimento della mia coscienza. Lo sciabordio
dell'acqua che sento in cuffia crea l’acqua: vedo l'acqua, sono nell'acqua, e
la sento. Sento la freschezza delle onde marine sul corpo e poi vedo il blu
delle profondità nelle quali sono immerso.
Poi
vedo un pesce. Poi una frattura nella terra e poi una donna. Le parole che
ascolto, man mano che le poesie si avvicendano, generano immagini. Se si parla
di acqua vedo acqua e così via.
Sento di sprofondare in uno stato di coscienza
alterato, come se stessi scavando più in profondità, perché ora inizio a vedere
soltanto colori e forme che si muovono e si intersecano tra di loro e quando si
uniscono mutano ancora forma e colore.
È ormai solo pura forma e puro colore e
questi cambiano di continuo. Solo verde, giallo, rosso, blu in cerchi, quadrati
e cascate di forme geometriche. Sono come le immagini che vedi quando stai per
addormentarti: le illusioni ipnagogiche.
Mi
ero quindi addormentato? Non lo so. Non so davvero dire cosa sia successo,
l'unica cosa sicura è che ero in uno stato di coscienza alterato, diverso, non
nella veglia. Se torno indietro con la memoria non ho neanche coscienza precisa
di cosa sia successo e cosa io abbia fatto in quei momenti (quanto lunghi, non
so). Ho fatto esperienza di cose che non sapevo, ho visto cose che non
immaginavo. Ero io e non ero io allo stesso tempo. Claudia ha toccato forse
parti più profonde e sepolte della mia psiche.
A proposito di Claudia Fabris.
Mi chiedo quale sia il suo ruolo nella performance, a che archetipo ricondurla.
Questo pensiero mi si presenta di tanto in tanto mentre, steso, ascolto la sua
voce meravigliosa. Sì è presentata come una cameriera di poesia, poi ho
iniziato a vederla come una psicoterapeuta che innesca e partecipa a un
processo col suo gruppo di terapia, sempre mantenendo però il suo ruolo. Pian
piano, però, inizio a vederla come una maga: le sue parole sembrano incantarmi.
Lei sta creando dei mondi con la parola, il suo abracadabra poetico
forgia e nel frattempo ammalia, ci fa sprofondare in un sopore magico, profondo
e innaturale. Qualcosa di ricco e strano, mi vien da dire.
Mi ridesto un poco,
Claudia parla di Pino Sciola1, artista sardo che
faceva “cantare” le pietre. Il suo proposito artistico era di dimostrare che la
pietra era cosa viva, perché capace di cantare.
Quindi, applicava dei tagli
alle pietre che, una volta sfiorate, emettevano dei suoni simili a un canto.
Ascoltiamo questo canto. Sento il bisogno di allungare la mano e toccare la
parete di pietra che è accanto a me. La sento bagnata, morbida. Come se fosse
viva e mi stesse sorridendo divertita. Claudia ci anticipa che il prossimo
suono ha provato anche lei a produrlo da quella stessa pietra e non poteva
collegare il suono che sentiva a quello che vedeva, non riusciva proprio a
crederci. Sembra una sinfonia, un qualcosa di corale. E qui accade che il mio
sguardo è come se acquisisse una seconda vista. Stavo guardando già da molti
minuti la volta di pietra sopra di me, ma sembra che solo ora la stia guardando
per davvero. Così con lo sguardo e la testa comincio a muovermi continuamente
da destra a sinistra e poi ancora e di nuovo, a coprire interamente l’arco. È
come se vedessi la pietra illuminarsi e viva risuonare e cantare come in una
sinfonia.
Ho
riacquisito un po' di lucidità, cerco di seguire il testo, di visualizzarlo ma
ben presto sprofondo di nuovo in questo strano stato della coscienza.
La mia
intelligenza fatica, si aggrappa ma non ci sta dietro. Prima di abbandonarmi
realizzo che la poesia è primariamente voce, mentre noi ci fermiamo solo al
testo, nelle analisi linguistiche e nelle strutture metriche. La natura sacra
della poesia, il rapimento estatico che comporta, non sono solo cose scritte
sui libri o anticaglie del passato. Sento come di aver sbagliato tutto
nell’interpretare la poesia, ma non ho tempo per giudicarmi: sono già
nuovamente ammaliato.
È
arrivato il momento dei dolci, recitati ritmati, cantati o con doppia voce,
accompagnati dalla musica. Claudia Fabris sta eseguendo Nature Boy di
David Bowie, la mia scelta. Canta un verso in inglese e poi si ascolta la sua
traduzione in italiano e così via ancora. L'effetto è quello di una magia
ritardata o di una magia cosciente. La parte inglese incanta, quella in
italiano si offre alla coscienza.
Poi,
«come in ogni ristorante che si rispetti», caffè amaro, macchiato, brandy,
vodka, sake, liquore africano e mille erbe. La nazionalità di ogni autore e
l’effetto della sua poesia generano questa ripartizione alcolica. Un colpo
poetico dietro l'altro, poesie brevissime che mirano al centro e fanno colpo.
Sono emozionato. Risorge in me l'idea che l'uomo è una cosa piccola, che deve
prendersi cura di sé e dell'altro e che deve vedere il bello anche nelle
difficoltà.
Siamo
giunti al termine, forse l'ho capito con un po' di ritardo. Non si sente più
nulla nella mia cuffia. Claudia è andata via. Penso che sia un qualcosa di
maieutico o una ritirata della maga, quand’ecco che ritorna con una grande
borsa stretta a due mani e la porge davanti a ciascuno di noi, invitandoci a
pescare qualcosa da dentro. Sono le sue “parole sotto sale”, titolo anche del
suo libro, un “piccolo dizionario poetico” in cui ciascun componimento offre l’etimologia
poetica di una parola2.
Pesco
la mia, è “Formazione”. Per una serie di motivi personali (e quasi tutti
relativi alla sola giornata di oggi) sembra la parola giusta per me. Sembra,
ancora una volta, un’incursione magica e profonda nei miei pensieri più celati.
Mi guardo intorno e sollevo il busto. Sono, siamo tutti intontiti. Ma paghi,
soddisfatti. Io mi sento sazio, nutrito, ristorato. Dentro di me ribolle la
voglia di dire “grazie”.
E
qui ho un'illuminazione. Mi sento esattamente come dopo una bella mangiata. Ed
ecco che trova soluzione e compimento un rovello, uno dei tanti fili che ha
attraversato la mia mente in quella che mi è sembrata una vita a parte più che
un'esperienza. Lei non è stata né la maga, né la cuoca, né la psicoterapeuta.
È
stata esattamente quello che ci ha detto essere sin dal principio: una
cameriera di poesia che ci ha servito e ristorato, attenta ai nostri bisogni e
premurosa di farci tornare a casa più che sazi e accuditi. Abbiamo timidamente
ripreso a parlare, a mezza voce le dico "grazie", ma non credo mi
abbia sentito.
Non
fa niente, basta così. Il conto, grazie.
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