“Un Boss in salotto”, bel film comico con interpreti di notevole bravura che fa anche riflettere sul termine "camorra". Il film “ Un Boss in
salotto” è ben articolato sui vari “giochi di potere” che la competitività
della vita consumistica impone. Paola
Cortellesi, l’attrice protagonista chiamata
nel film Cristina, sorella di presunto camorrista, nega la sua origine di “terrona”
anche nella inflessione dialettale nordica e nega parte identitaria di non poco conto, il
suo vero nome (“Carmela”); ella fa vivere i propri figli Vittorio e Fortuna in
un clima ovattato e “simmetrico” in stile “college” anglosassone. Ad un certo
punto spunta il fratello, fatto ritenere defunto, un deviante presunto cammorista,
il quale rompe l’equilibrio che lei con tanti sacrifici ha cercato di creare: “Una
famiglia del mulino bianco”, quasi perfetta.
Il film si regge molto
sulle solide spalle di Paola Cortellesi - che interpreta la madre Cristina -
brava credibile eclettica, un'attrice piena di talento, e Rocco Papaleo,
anch'egli molto bravo, capace di vivere la sua macchietta nella credibilità
quasi fumettistica in cui il regista ha deciso di relegarlo. In un cottage eco
compatibile, vive una famiglia quasi perfetta comandata a bacchetta da una
madre-coach, Cristina, determinata e volitiva che ogni mattina incita i figli
Vittorio e Fortuna a darci dentro nella vita, non senza aver prima corroborato
il marito con la quotidiana dose di fiducia affinché ottenga il posto di
direttore di marketing nella ditta edile che domina la città e i suoi abitanti,
impiegati e sudditi. Cristina deve fare i conti con un'ingombrante figura
maschile che qui prende le sembianze di un fratello pare camorrista. Il caso
vuole che in attesa del processo che stabilisca la sua affiliazione, il
fratello presunto boss venga mandato al confino bolzanino con la possibilità di
attendere l'inizio del processo nella casa della sorella. Eccolo, dunque, che
si presenta in quel di Bolzano vestito da vero “cafone”, con la tuta acetata,
la canottiera bucherellata, svariate catene dorate al collo e uno stuzzicadenti
pendente dall’angolo delle labbra. Cristina ha finito di vivere e il suo
castello di finzioni cade un pezzo alla volta riportandola alle sue origini neglette,
in un lento risorgere dell'orgoglio meridionale. Il tutto in un clima di
comicità buona e non volgare. Al di là della suggestione dell'infiltrazione camorristica al
nord, la pellicola "tiene" da ogni punto di vista. Il marito di Cristina, debole e mite di natura, e per questo anonimizzato
nel cognome “Coso”, sembra sottostare
all’idea che per contare nella società bisogna scendere a compromessi, spesso notevoli.
Fortuna che in fin dei conti quel che conta di più, rispetto al dio danaro, è l’affetto
dei più cari. (Sabina Pistillo)
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