domenica 19 gennaio 2014

Un “Boss in salotto”: comicità italiana in ascesa







Un Boss in salotto”,  bel film comico con interpreti di  notevole bravura che fa anche riflettere sul  termine "camorra". Il film “ Un Boss in salotto” è ben articolato sui vari “giochi di potere” che la competitività della vita consumistica impone.  Paola Cortellesi, l’attrice protagonista  chiamata nel film Cristina, sorella di presunto camorrista, nega la sua origine di “terrona” anche nella inflessione dialettale nordica  e nega parte identitaria di non poco conto, il suo vero nome (“Carmela”); ella fa vivere i propri figli Vittorio e Fortuna in un clima ovattato e “simmetrico” in stile “college” anglosassone. Ad un certo punto spunta il fratello, fatto ritenere defunto, un deviante presunto cammorista, il quale rompe l’equilibrio che lei con tanti sacrifici ha cercato di creare: “Una famiglia del mulino bianco”, quasi perfetta.
Il film si regge molto sulle solide spalle di Paola Cortellesi - che interpreta la madre Cristina - brava credibile eclettica, un'attrice piena di talento, e Rocco Papaleo, anch'egli molto bravo, capace di vivere la sua macchietta nella credibilità quasi fumettistica in cui il regista ha deciso di relegarlo. In un cottage eco compatibile, vive una famiglia quasi perfetta comandata a bacchetta da una madre-coach, Cristina, determinata e volitiva che ogni mattina incita i figli Vittorio e Fortuna a darci dentro nella vita, non senza aver prima corroborato il marito con la quotidiana dose di fiducia affinché ottenga il posto di direttore di marketing nella ditta edile che domina la città e i suoi abitanti, impiegati e sudditi. Cristina deve fare i conti con un'ingombrante figura maschile che qui prende le sembianze di un fratello pare camorrista. Il caso vuole che in attesa del processo che stabilisca la sua affiliazione, il fratello presunto boss venga mandato al confino bolzanino con la possibilità di attendere l'inizio del processo nella casa della sorella. Eccolo, dunque, che si presenta in quel di Bolzano vestito da vero “cafone”, con la tuta acetata, la canottiera bucherellata, svariate catene dorate al collo e uno stuzzicadenti pendente dall’angolo delle labbra. Cristina ha finito di vivere e il suo castello di finzioni cade un pezzo alla volta riportandola alle sue origini neglette, in un lento risorgere dell'orgoglio meridionale. Il tutto in un clima di comicità buona e non volgare. Al di là della  suggestione dell'infiltrazione camorristica al nord, la pellicola "tiene" da ogni punto di vista. Il marito di Cristina, debole  e mite di natura, e per questo anonimizzato nel cognome “Coso”,  sembra sottostare all’idea che per contare nella società bisogna scendere a compromessi, spesso notevoli. Fortuna che in fin dei conti quel che conta di più, rispetto al dio danaro, è l’affetto dei più cari. (Sabina Pistillo)

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