giovedì 27 novembre 2014

JIMI HENDRIX: IL MANCINO DI SEATTLE avrebbe oggi 72 anni


Caro Jimi, ti scrivo anche se non mi conosci. Ero solo un ragazzetto quando suonavi ed io comperavo i tuoi LP. Oggi, 27 Novembre, avresti compiuto 72 anni. Dopo tanti anni mi preme di parlare a Te che hai rivoluzionato le sonorità della chitarra elettrica fondendo blues, R&B, soul, rock e altri dintorni. Tu, il Mancino di Seattle che avevi la nonna Cherokee e sangue messicano-negroide. Che cosa avresti scritto e suonato se fossi sopravvissuto a quella notte fatale e letale? Se avessi superato i 27 anni di vita, il mondo musicale ti avrebbe osannato ancora? Charlie Parker arrivò a 34 anni, anche lui stroncato dalle dipendenze che ne avevano minato il cervello già in età evolutiva. Allora si leggevano i classici tra un disco e l'altro ed eravamo smarriti dalla modernità dei classici, quasi che l'umanità fosse sempre la stessa. “Muor giovane colui che al cielo è caro”, così Leopardi traduceva da Virgilio. "Perché è così diffusa la morte prematura?" scriveva Lucrezio lasciando la domanda in sospeso ("Quare mors immatura vagatur?", te lo dico in lingua originale ma, non ti preoccupare,  qui in Italia quasi nessuno capisce più  il latino). Insomma ci chiedevamo: Sono gli dei a chiamare a sé i giovani? o sono i giovani a chiamare gli dei? 
Per noi giovani di allora la morte di Jimi Hendrix fu un sisma esistenziale da "risistemare" in qualche modo. Non si trattava di una morte accidentale o per malattia. In me prevalse la rabbia: chi ha tanto da dare perché tanto ha avuto dalla Natura non dovrebbe far di tutto per tutelare se stesso e l'arte inscritta in sé? Così mi dicevo ragazzo, così ci dicevamo dopo il 18 Settembre del 1970, dopo quella notte al Samarkanda Hotel. Così ti scrivo oggi. Tacque all'improvviso la leggendaria Fender Stratocaster (almeno la Tua): ma la musica di Jimi Hendrix, continuò a primeggiare, continua a formare schiere di chitarristi.
Il Mozart è finito anche Lui nella fossa comune delle tossicodipendenze. Ne vediamo ogni giorno di zombi e cerchiamo di curarli. Talora, sai?, si esce dalla massa in ribellione individuale ma poi, con la dipendenza -  che tutto e tutti zombizza - si rientra nella massa amorfa, inerte ed esanime della fossa comune. Peccato allora, peccato oggi. Ti pensiamo sempre con affetto e stima smisurata. (a.m.)


mercoledì 26 novembre 2014

Tre cuori - recensione



Il terreno di gioco è l'amore e la partita si gioca a tre, a dirigerla è il destino, unico vero protagonista dell'ultimo lavoro di Benoit Jacquot, presentato in concorso all'ultima Mostra di Venezia. Marc (Benoît Poelvoorde) è un ispettore delle imposte ed una sera, dopo aver perso il treno per Parigi, incontra per le strade di una cittadina di provincia Sylvie (Charlotte Gainsbourg) e a lei chiede indicazioni per un hotel, ma Sylvie tra un passo e una sigaretta diventa per Marc uno specchio a cui si concede, mentre si inoltrano verso l'alba che li sorprende con le anime affini. Tra loro parole, passi su passi, silenzi, ed i grandi occhi di Sylvie che si fermano in quelli di Marc mentre con due dita si porta gli angoli della bocca in su, disegnando un sorriso che gli offre in dono. Marc al mattino parte col primo treno, ed anche se non conoscono i loro nomi, si danno appuntamento a Parigi qualche giorno dopo, dove Marc non si presenterà in orario per un lieve infarto che lo coglie proprio quando sta per incontrare Sylvie che va via amareggiata. Le loro vite sembra che scorrano in parallelo, e mentre Sylvie decide di trasferirsi in America, Marc incontra Sophie (Chiara Mastroianni), una donna che si presenta presso il suo ufficio per un problema con la dichiarazione dei redditi e tra loro nasce presto una storia d'amore, ma Marc ignora che Sophie è la sorella maggiore di Sylivie. Il destino dopo aver giocato con Marc e Sylvie, unisce ancora i loro passi e li conduce verso un bivio dove il loro amore che era rimasto congelato tra le pieghe della vita, incrocia il forte sentimento che lega Sylvie a Sophie, dando luogo ad omissioni a cui solo la madre delle due donne (Catherine Deneuve) riesce a dare significato, alla luce di un forte legame che ha sapore di libertà e rispetto ed una complicità rara tra le tre donne. E sebbene il lavoro di Jacquot ci conduca a riflessioni alla Sliding doors, nelle quali ci si può perdere mentre la mente rimbalza tra una quello che è stato e quello che sarebbe potuto essere, a smorzare tale fascino è proprio la voce narrante che sente l'esigenza di spiegare, ed un inquietante e inopportuno sottofondo da horror (neanche da thriller) che incalza e stride, così come poco credibile risulta l'interpretazione di Poelvoorde che rasenta la parodia. Tanto che sui titoli di coda, per un epilogo che avrebbe potuto suscitare anche grandi e forti emozioni, ci sfugge un sorriso per una storia che di comico non ha nulla, in perfetto accordo con il contrasto tra il ruolo di Poelvoorde e la sua interpretazione.

Antonietta D'Ambrosio

martedì 25 novembre 2014

Due giorni, una notte - recensione









Il film è tutto nell'orizzonte grigio adagiato sul blu di due occhi, nel mare di lacrime che scende, negli abissi bui dell'animo da cui si prova ad emergere, e timide risalite a galla si riconoscono in un sorriso che trema o nell'intonazione di una canzone rock che risuona da una voce strozzata.
È Sandra, magneticamente interpretata da Marion Cotillard, che lotta per venir fuori dalla negazione di se stessa, dalla malattia che conduce in un fondo che non conosce raggi di sole, e trascina anche noi che assistiamo impotenti. Nel momento in cui comincia a muovere i primi passi verso la guarigione, quasi pronta a tornare al suo lavoro di operaia in una piccola azienda che produce pannelli solari, viene informata dell'iniziativa del datore di lavoro finalizzata al suo licenziamento, che ha già indetto un referendum nel quale chiede ai suoi dipendenti di scegliere tra un bonus di 1000 negando il reintegro di Sandra a lavoro, o votare perché rimanga, dovendo però rinunciare al bonus. A Sandra viene concesso di ripetere la votazione in cui sia garantita la segretezza del voto, ed ha soltanto due giorni e una notte per convincere i suoi colleghi a rinunciare al bonus e restituirle dignità ed identità. Il nucleo della sua famiglia la sostiene, attraverso l'amore di Manu (Fabrizio Rongione) che colma ogni vuoto dei suoi occhi, e la collaborazione di Maxime ed Estelle, i suoi bambini che si lanciano nella ricerca degli indirizzi dei colleghi. Nel Belgio dei fratelli Dardenne, il loro sguardo si apre ad uno spaccato di vita fatta di stenti, lasciandoci intravedere il volto una classe operaia multirazziale che, sotto schiaffo di un ricatto che va oltre ogni etica, risponde con commossa solidarietà o con estrema violenza, con la promessa di chi è stato educato al bene del prossimo o con la vigliaccheria di chi si nega al dono. I fratelli Dardenne hanno lasciato la scena ai  primi piani di un'impeccabile Mariot Cotillard senza aggiungere sfondi o cornici in modo che fossero il suo viso e le sue spalle curve a parlarci, e sarebbe potuto essere un ottimo film se il loro sguardo non si fosse assopito per alcuni lustri, richiamando alla luce una realtà che è stata vera negli anni ottanta, quando le differenze tra la  classe operaia e la classe alto borghese dei piccoli imprenditori era tale da far intravedere una distanza in termini di potere economico, ma non è vera nell'Europa di oggi, in un momento in cui le piccole imprese sono le prime vittime di banche, pressioni fiscali e mercati sempre più spenti e dove si assiste ad una  vera guerra tra nuovi poveri. L'epilogo ci solleva lasciandoci scorgere uno spiraglio che conduce verso la rinascita individuale, ma che potrebbe estendersi al sociale se si riconoscesse nell'inclinazione al dono il vero senso dell'esistenza.

Antonietta D'Ambrosio




lunedì 24 novembre 2014

Tribute to Walter Bonatti: la Mostra di Milano in previsione dell'EXPO

Walter Bonatti nasce a Bergamo nel 1930. Pochi avrebbero predetto che sarebbe diventato un leggendario alpinista quel ragazzo nato in pianura, dal volto pulito ed il corpo scolpito e fremente.  Nel 1951 è alla sua prima grande impresa alpinistica: con Luciano Ghigo scala la parete est del Grand Capucin nel gruppo del Monte Bianco. Nel 1954 Bonatti è il più giovane partecipante alla spedizione di Ardito Desio, che porterà Achille Compagnoni e Lino Lacedelli sulla cima del K2: una impresa che favorì nella opinione pubblica nazionale ed internazionale la rinascita dell’Italia postbellica. Il K2 ha mietuto sempre vittime per il carattere estremamente ripido della cima e per la difficoltà di posizionare utili campi-base. 

Eppure quella grande impresa italiana (che costò la vita alla guida Mario Puchoz e molte dita amputate dal freddo ad altri partecipanti), nella veridicità, fu contaminata da polemiche e vicende giudiziarie che, non  nuove nella nostra tradizione italiana, si sono placate solo molti anni più tardi, sancendo che la versione di Walter Bonatti sui fatti occorsi era la più onesta e corretta. Dopo quell'impresa comunque nulla sarà più eguale nella vita dell’alpinista: da allora in poi, dalla scalata del K2, Bonatti preferirà imprese “solitarie”.  « Quello che riportai dal K2 fu soprattutto un grosso fardello di esperienze personali negative, direi fin troppo crude per i miei giovani anni. » (Walter Bonatti, Le mie montagne). 
Nel 1955 scala - in solitaria -   il pilastro sud-ovest del Petit Dru, nel massiccio del Monte Bianco: il celebre dado Liebig "il condimento ideale", gli dedicò una figurina dedicata alla "conquista delle grandi cime". Sembra incredibile. Altro che sponsorizzazioni odierne. Appeso alla parete del Dru, lo si vede raggiungere la meta con uno zigzag temerario e le manovre di pendolo: in un punto della parete lancia più volte la sua corda finché questa si impiglia sulle rocce, consentendogli l'ascesa. Mi sono sempre chiesto come facciano questi eroi quando si bloccano o devono tornare indietro.
Nell’inverno del 1965 scala in solitaria la parete nord del Cervino aprendo una nuova via. È la sua ultima impresa di alpinista estremo. Da allora in poi si dedicherà unicamente all’esplorazione e all’avventura come inviato del settimanale Epoca, settimanale  famoso – lo diciamo per i più giovani – edito da Mondadori nel periodo 1950-1997. 


Non a caso il Catalogo in vendita sulla Mostra lo ritrae come su questo numero di Epoca.
Nel 1979 Bonatti lascia Epoca. Dagli anni Sessanta pubblica tanti volumi e fotoreportage che narrano le sue avventure in ogni luogo che fosse poco o nulla calpestato dall’Uomo. Muore a Roma il 13 settembre 2011, all’età di 81 anni, consumato da un fulmineo carcinoma del pancreas. Negli ultimi viaggi lo aveva seguito l’attrice Rossana Podestà, divenuta, dopo un incontro semifortuito, sua compagna di vita. Balzò al (dis)onore della cronaca il fatto che alla Podestà non era stato concesso dal personale ospedaliero di assistere il compagno, in quanto non “moglie”. Lei è deceduta 2 anni dopo la morte del compagno.
Bonatti imparò a fotografare per documentarsi prima delle scalate e per documentare le imprese alpinistiche. Poi si innammorò della fotografia naturalistica. Alessandra Mauro e Angelo Ponta scrivono nel Catalogo della mostra: “Molte tra le sue folgoranti immagini sono grandiosi ‘autoritratti ambientati’ e i paesaggi in cui si muove sono insieme luoghi di contemplazione di scoperta. Bonatti si pone davanti e dietro l’obiettivo: in un modo del tutto originale è in grado di rappresentare la sua fatica e la gioia per una scoperta, ma al tempo stesso sa cogliere le geometrie e le vastità degli orizzonti che va esplorando.”
Negli anni dell’alpinismo Bonatti usò fino al 1954 una macchina Voigtlander; fino al 1965 una modesta Ferrania Condoretta: una camera compatta (non reflex! a mirino galileiano), risalente come modello al 1951, con obiettivo fisso  Terog f4/40 mm diaframmabile sino a f/22, otturatore Aplon con posa B, 1 sec, 1/2, 1/5, 1/10, 1/25, 1/50, 1/100, 1/300; la messa a fuoco da 1m ad infinito si attuava ruotando la lente anteriore. Il formato della pellicola era 24x36 mm cioè il formato 135 che è stato il formato Leica adottato da ogni reflex (Nikon, Canon ecc.) sino all'avvento del digitale.



Dai fotoreportage con Epoca si dotò di Olympus (è passato dalla Pen? la famosa reflex M-1, poi OM-1, è solo del 1972-73) e Nikon (la famosa Nikon F data dal 1959). Immagino che scelse via via sistemi più avanzati anche per poter scattare foto a distanza con filo e radiocomandi.
L’esposizione dal titolo Walter Bonatti. Fotografie dai grandi spazi, con l’ausilio di video, di documenti inediti e di un allestimento particolarmente coinvolgente, ripercorre il racconto visivo, le vicende esistenziali e le avventure dell’alpinista ed esploratore italiano. La mostra è all’interno del fascinoso Palazzo della Ragione Fotografia a Milano e va dal 13 novembre fino all’8 marzo 2015.
Le immagini in mostra testimoniano oltre 30 anni di viaggi. Scatti unici nel loro genere che ritraggono un uomo in scenari  da “infinito” leopardiano.

“È difficile separare il ricordo di Walter Bonatti da quello delle sue fotografie – dicono gli organizzatori della mostra  che prelude alla Expo 2015 -  Ed è sorprendente scoprire quanto la sua figura e le sue imprese siano radicate nella memoria di un pubblico tanto differenziato per età e interessi. La persistente popolarità di Bonatti ha più di una spiegazione. Imparò a fotografare e a scrivere le proprie avventure con la stessa dedizione con cui si impadronì dei segreti della montagna: alpinista estremo, spesso solitario, ha conquistato l’ammirazione degli uomini e il cuore delle donne, affascinando nello stesso tempo l’immaginario dei più giovani.
 Il mestiere di fotografo per grandi riviste italiane, soprattutto per Epoca, lo portò a cercare di trasmettere la conoscenza….. Molte tra le sue folgoranti immagini sono grandiosi “autoritratti ambientati” e i paesaggi in cui si muove sono insieme luoghi di contemplazione di scoperta. Bonatti si pone davanti e dietro l’obiettivo: in un modo del tutto originale è in grado di rappresentare la sua fatica e la gioia per una scoperta, ma al tempo stesso sa cogliere le geometrie e le vastità degli orizzonti che va esplorando.”
Quando ero ragazzo mi affascinavano di lui le foto su Epoca scattate all’isola di Komodo con gli enormi varani komodensi sullo sfondo: allora nessuno aveva tentato un avvicinamento del genere. Quella foto non l’ho trovata alla mostra ma ce l’ho stampata nella memoria : avrebbe condizionato la mia indole di viaggiatore. Grande l'Ulisse dentro di lui e lo ha trasmesso.

Personalmente della bella mostra mi ha colpito la poco credibile attrezzatura di tante imprese al limite dell’umano: scarponi tipo "anfibi" militari, corde completamente atecnologiche, come in uso negli anni Cinquanta: sembra impossibile che corde così siano state adoperate su ghiacciai o per inerpicarsi sull'impossibile. Sono più sicure le cose acquistabili a un centro commerciale sportivo. Mi ha colpito il regalo fattogli dopo la celebrità raggiunta da un negoziante: una semplice macchina da scrivere Everest (un caso?) ; dalle macchine successive ci sarà anche la scritta "Everest K2".
 E le foto? La foto che riporto è stata scattata all’Isola di Pasqua (1969) e mi ha colpito perché mai io – nel mio soggiorno a RapaNui – sarei potuto salire su quella rupe, di basalto vacuolare friabile e umida: 

ma lui si è arrampicato in posizioni assurde per esempio risalendo La Coda di Canguro, una crepa immane di oltre 150 m ad Ayers Rock (1969) o tuffandosi a più riprese dalle rocce delle cascate Murchison del Nilo-Vittoria in acque pericolose o nelle vicinanze di un ippopotamo, animale assai killer in quanto fortemente territoriale. Eppure Bonatti non era un matto e andava via  sempre per tornare. E raccontare. (achille miglionico)

lunedì 17 novembre 2014

Salgado & Il sale della terra



«Siamo animali molto feroci, animali terribili» commenta amaro il settantenne fotografo






Se la parola ha in sé la magia di dar forma a stati d'animo e sentimenti, il potere di catturare il tempo e dilatarlo, di rendere eterno un momento, il Cinema che si esprime in gran parte attraverso le immagini, per mano di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, con Il sale della terra compie il miracolo, e rendendo omaggio a chi ha saputo scrivere sulla luce, ci offre il ritratto artistico ed umano di Sebastião Salgado, il fotografo brasiliano che ha saputo trasformare l'immagine in poesia. La forza della sua fotografia è tale che ogni parola potrebbe essere un insulto al cospetto dell'immensità; scrivere di questo film è come profanare qualcosa di sacro, perché viverlo è un'esperienza quasi mistica, è un percorso attraverso il dolore, è guardare con un occhio cosmico la vita e la morte in una dimensione che va oltre la prospettiva di ognuno di noi, è saper vedere attraverso lo sguardo di un bambino adagiato in una bara, spento ma ancora vibrante, cosa c'è al di là di quel limite oscuro, è l'attimo di felicità nel sorriso e nella complicità di due amici su un barcone tra l'orrore di una migrazione di massa, è l'uomo nella realtà di ogni continente che si misura con il suo ambiente e col tempo, che accelera il passo o lo ferma. Wim Wenders come Omero e Juliano Ribeiro Salgado come Telemaco, attraverso la sua arte ed ascoltando la sua stessa voce, sono testimoni dell'infinito viaggio di Sebastião Salgado, di cui ne seguono la partenza dalla terra di origine, e spingendosi verso le foreste tropicali dell'Amazzonia, passano dall'Indonesia alla Nuova Guinea, dal Congo, dalla Jugoslavia al Kuwait, attraversano i ghiacciai dell'Antartide, indugiano in Rwanda di cui ogni fotografia è il nero sul bianco dell'orrore del genere umano sull'uomo, è lo spettacolo di come l'uomo operi alla distruzione del suo stesso genere, si fermano su guerre e schiavitù, sono occhi nei suoi occhi perché "una foto non parla solo di chi è ritratto, ma anche di chi ritrae". Ed attraverso i suoi occhi ci fermiamo tutti sull'evoluzione di ogni specie animale  scoprendo che siamo cellule di una stessa cellula, ospiti di una meravigliosa terra che non sempre siamo in grado di amare e l'orrore ci scava l'anima fino a consumarla ed un magone di impotenza e sfiducia nel nostro genere ci pervade finché Salgado stesso ci conduce verso la cura con il suo ritorno alle origini, dove la vita irrompe e ci circonda. La circolarità del suo viaggio fino al recupero dei valori di origine ci regalano conoscenza, consapevolezza, nuova fiducia, e la riconquista definitiva di ogni valore che ci lega alla vita. L'impegno nella riforestazione di una terra resa brulla dalla siccità è la sfida della luce dell'esistenza  sulle tenebre della morte, è il senso dell'eternità. Sebastião Salgado come Ulisse torna dal suo Telemaco, nella sua terra e dalla sua donna che ha sostenuto il suo viaggio tessendo la tela della sua rinascita. L'umanità è Il sale della terra ed è anche un'opera grandiosa, è arte che si concede all'arte, e scava l'anima fino a levigarla e renderla migliore. 

Antonietta D'Ambrosio




venerdì 14 novembre 2014

Anime nere - recensione










Non è il grande schermo che può proteggerci dal nero che scivola da Milano ad Africo, di cui se ne respira quasi l'odore sotto un cielo che ne sfuma appena il tono a dispetto di ogni giorno che nasce e di un amore che balza da padre in figlio, da fratello a fratello, ed è il nero lucido di una bara, di un dolore che si tramanda e di una sete di vendetta che non si placa. Tutto troppo vero e crudo tanto da annullare lo schermo e dipingere di nero anche le nostre anime cancellando i confini tra il bene e il male, perché quello di Francesco Munzi non è un film di denuncia che ci consente di riconoscere una realtà crudele e prenderne le distanze, noi ci siamo dentro, e siamo ombre del nero che respiriamo. Ci sembra quasi di essere cresciuti nel più profondo Aspromonte, su distese di roccia brulle sagomate da una natura ostile e da una cura incompleta ed aspra dell'uomo che lascia case e strade rifinite solo a metà, di cui Munzi ci regala una fotografia netta entrando nella vita più autentica di quei luoghi attraverso la loro lingua, il folklore, i pascoli sul mare, il peperoncino affettato su un tagliere in una casa di lusso della Milano borghese, e lo fa con lo stesso occhio senza filtri con cui Winspeare osserva il Salento. Munzi comincia la sua narrazione puntando lo sguardo sui profili di Luigi (Marco Lonardi) e Rocco, a cui presta il volto Peppino Mazzotta che abbiamo conosciuto nelle vesti del fidato Fazio in Montalbano (scelta non casuale se pensiamo a quanto sia probabile che chi opera per sconfiggere il male ne venga poi ingoiato), due fratelli che hanno spostato i loro traffici illeciti da Africo a Milano, e su Luciano (Fabrizio Ferracane) , fratello maggiore , che sopisce il dolore di un padre ammazzato molto tempo prima dal clan rivale, dedicandosi alla preghiera e alle capre. E' Leo (Giuseppe Fumo), figlio di Luciano, cresciuto tra i pascoli e nel rancore silente di suo padre verso il clan rivale, che risveglia la sete di vendetta con una provocazione dopo la quale si va dritti verso la tragedia. È la 'ndrangheta che va in scena nella pellicola di Munzi, ed è nera come le anime che la ospitano, consumate fin nel profondo da una logica che risponde ad un sistema che va oltre uno Stato fermo ad un passo dai confini di terre poste al margine, ed osanna santi con una mano e con l'altra impugna una pistola, che riconosce il suo potere attraverso il consenso di famiglie fedeli, ma non ammette ingenuità. E' il nero in tutte le sue sfumature dove l'unica figura che si staglia è quella della moglie di Rocco, Valeria, a cui presta volto e colori Barbara Bobulova, autentica nel suo essere al di fuori del coro, e con lei lo sfarzo dorato e barocco di un contorno falsamente borghese. Sui titoli di coda un brivido di disagio ci sfiora dato da un epilogo asfissiante e da un vago ed inconsapevole sentimento di solidarietà. Ottimo nel disegnare i contorni di una realtà scomoda, dove tutto il resto rimane fuori tranne noi.(Antonietta D'Ambrosio) 






venerdì 7 novembre 2014

The judge - recensione




Quello dei Palmer è un dramma famigliare che che rimbalza oltre parole e gesti fermi tra le pieghe del tempo, che si traducono non solo nel male di chi li ingoia, ma divorano anche chi ne riempie il vuoto caricandolo di rancore e odio. David Dobkin mette a nudo sul palcoscenico di un'aula di tribunale, le diverse identità di un padre ed un figlio, i cui profili vengono definiti attraverso il loro conflitto che prende corpo nel corso della pellicola facendo ricorso ad un caso giudiziario che vede coinvolti Joseph PalmerThe Judge (interpretato da un ancora brillante Robert Duvall), accusato di omicidio, ed il figlio Hank (Robert Doweny jr), il miglior avvocato difensore degli indifendibili di Chicago, che si reca nella piccola cittadina natale dell'Indiana dopo aver ricevuto la notizia della morte di sua madre e dove è costretto a fermarsi per difendere l'odiato padre. Al di là di situazioni improbabili ed alquanto grottesche, e montaggio scenico mediocremente abbozzato, la narrazione si snoda in maniera fluida giocando sulle relazioni di una famiglia fin troppo americana, che attraverso lo sguardo di Hank si presenta come un quadro di Picasso, fatta di pezzi diversi ma uniti fino a toccarsi, dove la prospettiva è stata cancellata dall'ingombrante mano di un uomo, socialmente irreprensibile, che i tre figli chiamano Il Giudice. È il giudizio e l'accusa che pesa sulla vita di ogni figlio; su Hank costretto a lasciare la cittadina dove è cresciuto per sottrarsi allo sguardo di suo padre e riscattarsi, su Glen (Vincent D'Onofrio), il maggiore dei tre, grande promessa del basket non mantenuta a causa di un incidente provocato da Hank e che avrà conseguenze estreme sui rapporti, e sul minore, Dale (Jeremy Strong), affetto da ritardo mentale, nascosto sempre dietro una cinepresa. La permanenza di Hank nella cittadina dell'Indiana gli permette di soffiare su strati di polvere che coprono sentimenti ancora vivi, di far pace con le sue radici, e di ritrovare intatto l'amore di Samantha (Vera Farmiga). È una pellicola dove non  mancano momenti di forte intensità emotiva su cui Dobkin indugia poco evitando di scadere nel melodramma, smorzati dalla giusta ironia di Hank a cui Robert Doweny jr presta il volto in maniera eccellente duellando per bravura con un inossidabile Robert Duvall. 

Antonietta D'Ambrosio


R. Magritte - Le Savoir La porta Socchiudo la porta: s'intravede la luce La via non è fuori  È nel buio più intenso  nella parte più osc...