martedì 18 novembre 2003

#Patagonia & #Argentina



La Patagonia evoca a livello di fantasie e letteratura salti in un mondo parallelo dove i centimetri divengono metri ed i secondi divengono giorni. Tutto è particolare e senza domensioni in Patagonia. Anche il vento che scende dalla Cordigliera andina è spropositato e batte senza sosta la steppa della Patagonia argentina. Frotte di esploratori, emigranti, disperati, transfughi si sono dispersi (o hanno tentato di disperdersi) nella vastità lasciandosi alle spalle qualcosa. Così questa terra ai confini del mondo e senza confini essa stessa ha attratto nei secoli il cammino di tanti viaggiatori affascinati dal mito e dalle leggende. Il navigatore portoghese Magellano vi si intestardì a trovare lo stretto che da lui prese nome: lo accompagnava il nostro connazionale Antonio Pigafetta, autore di un diario di bordo importante dal punto di vista etnografico e letterario. Darwin con il comandante FitzRoy passarono di qui. I salesiani Giuseppe Fagnano e Alberto Maria de Agostini tentarono di difendere gli ultimi indios della Terra del Fuoco.

Butch Cassidy e la sua banda, per sfuggire alla ricerca della agenzia Pinkerton, si rifugiarono qui. Così più modernamente ufficiali nazisti per sfuggire al Mossad israeliano. Qui nessuno sembra ti facesse domande, come nella Legione Straniera. Bruce Chatwin che scrisse "In Patagonia", considerato il prototipo dei libri sui viaggi, la percorse tutta a piedi, riempiendo di note i suoi "moleskine"; se si legge"Patagonia express" di Luis Sepulveda, si ritrova lo spirito e la presenza di Bruce dappertutto. Vi offriamo materiale ripreso da un ben più modesto "moleskine".


Una volta, quando si parlava di umanoidi come fenomeni da baraccone si diceva che un "Uomo Patagonio" o un "Sansone Patagonico" si sarebbero cimentati dinanzi al pubblico della fiera in una dimostrazione di forza "bruta". Giovanni Battista Belzoni (1778-1823), che fisicamente era un "titano " muscoloso di due metri, quando, originario di Padova, visse a Londra, si esibiva sollevando una piramide umana di dodici persone nello spettacolo chiamato "Insoliti esercizi del Sansone Patagoniano". Naturalmente faceva l'artista di fiera prima di divenire famoso per le doti esploratrici e archeologiche (tra l'altro scoprì l'ingresso della Piramide di Chefren a Giza, in Egitto). Quindi "patagonico", "patagoniano" era nel 1800 garanzia di spettacolo senza eguali (chi avrebbe mai potuto verificare il vero con una terra così lontana da Londra?). La stessa parola "patagonia" sembra derivasse dai Patagoni "uomini dai piedi grandi" a causa della grande stazza fisica mostrata dagli indigeni.

Uscendo dall'aeroporto di Ushuaia, nella Terra del Fuoco, in una tormenta invernale di neve che aveva ritardato ansiosamente l'atterraggio, il vento mi accoglie con una folata che spazza me e il carrello gravido di valige con una forza che avevo conosciuto solo con la Bora triestina. Ridevo e chiedevo aiuto nel soffice della neve mentre cercavo di rialzarmi: intorno la "città più a Sud del mondo" - come scrive Chatwin - mi circondava con le sparute case e le tremolanti luci. Ridevo felice. Di essere lì. In un presepe, all'estremo della Patagonia.






IL VIAGGIO




Per come sono deviati stabilmente dal vento che scende iroso dalla Cordigliera andina, gli alberi a bandiera (flag tree) della Patagonia ricordano certi pini del Gargano o i pini loricati del Monte Pollino. Solo avvicinandosi ci si accorge che non sono pini.
La Patagonia argentina è diversa dalla Patagonia cilena, la quale è assai umida. La umidità del Pacifico si riversa sotto forma di pioggie abbondanti sul versante cileno delle Ande, che verso la Terra del Fuoco e la "fine del mondo" si abbassano gradatamente rispetto alle cime del nord. Le masse aeree scaricano acqua in Cile ed il vento che scende potentemente verso est e l'Atlantico diviene così molto secco e non incontra ostacoli ostacoli naturali. D'estate - nell'emisfero australe le stagioni sono opposte alle nostre, si ricorda - il vento solleva polvere con la velocità di 150 km all'ora. Ma il vento non scherza neanche in inverno: forte, implacabile e freddo ti toglie il respiro. In ogni zona visitata, dalla Penisola Valdez alla Terra del Fuoco, dallo stretto di Magellano a Santa Cruz, nella zona dei Ghiacciai il vento è un compagno fedele, talora ti inganna con movimenti a polsi, come l'onda pressoria del sangue. Il cosiddetto "effetto vento" va conosciuto d'inverno perché come altrove (p.e. in Canada) ti abbassa repentinamente la temperatura ambientale di dieci gradi e sembra che pugnaletti di ghiaccio penetrano ogni superficie cutanea scoperta. Dove c'è un abitato cercano di proteggersi con file di pioppi. Ah, gli abitati della Patagonia sono talora meno che paesi: quando chiesi a Puerto Bandera, vicino a El Calafate (Santa Cruz) quanti abitanti contasse il paese mi risposero candidamente "venticinque" e pensai che le riunioni di una famiglia media mediterranea avrebbero intasato Puerto Bandera. La gente argentina riesce a essere calda e riservata assieme, non ti invade mai ma se chiedi si dilunga: si avverte ovunque il bisogno di socializzare tipico delle nazioni a bassa densità di abitanti. Lì non ci si sgomita come a Roma e Milano. Certo Buenos Aires è un'altra cosa, una vera e propria metropoli, una nazione dentro ad una nazione (e la lingua spagnola fa posto ivi ad un neocastigliano orgoglioso e irriducibile che si mescola poi a un dialetto che è un crogiuolo di lingue originatosi come un fungo sui docks del porto, quando il Rio della Plata vedeva nugoli di navi e merci provenire da tutto il mondo e partire per tutto il mondo). Buenos Aires è un fenomeno a parte, come il tango. Ma al di là della megalopoli e della Pampa ecco che si apre la sconfinata Patagonia. Chatwin ci mise un paio di mesi a percorrerla a piedi ed in autostop.
Comunque espresso, l'itinerario patagonico potrebbe cominciare - come nel caso che vengo a descrivere - con un salto aereo, Buenos Aires-Trelew.







Penisola Valdez


Trelew è cittadina fondata dai gallesi nella Penisola Valdez. Cittadine e aeroporti sono minuscoli. Minuscolo è anche il bus che ci attende il 20 agosto al buio ed al freddo. I bagagli del gruppo sono distribuiti tra le poltrone ed un carrello stipato che sobbalzerà autonomo (senza ammortizzatori?) per tutto il tragitto. Una gelida corrente di aria poi si insinua tra le schiene proveniente dal piccolo portabagagli e ci rammenta la stagione. Raggiungiamo Puerto Madryn a 65 km di distanza. Dopo una cena mediocre all'Estrella e la notte al Bahia Nueva, comincia l'avventura. Le fotocamere sono armate e lo zaino in spalla.
Puerto Madryn, nella provincia di Chubut, è cittadina di circa 50.000 abitanti, fondata anch'essa dai gallesi che da queste parti giunsero numerosi per sfuggire alla povertà della loro terra. Il nome deriva da un certo Perry, barone di Madryn. Ora Puerto Madryn è cresciuta per il turismo favorito dalla Riserva Naturale della Penisola Valdez ed è sede di Università (biologia marina, informatica, ingegneria) Anche qui come ad El Calafate in Santa Cruz chi si ritiene nativo si chiama "NIC" ("nacido y criado", nato e cresciuto) per differenziarsi da chi è VIC ("venido y criado", venuto ma cresciuto qui). Prima c'era una deturpante fonderia d'alluminio, la più importante d'Argentina nel 1988, che ha lasciato qualche residuo di archeologia industriale nella baia; ora la economia è centrata sul turismo crescente, sulle ampie spiaggie che ne fanno d'estate una specie di Rimini e che richiama gente anche da Buenos Aires che non è proprio ad un tiro di schioppo (1371 km). La sabbia è buona ed è proprio sulla "costanera" Avenida Roca/Brown che alloggiamo al simpatico e caldo H Bahia Nueva.

Mi alzo all'alba del 21 agosto dopo una bella dormita (sono le ore locali 7.45! non è proprio una levataccia): il sole sorge magnifico sulla baia (vedi foto). Per il vento contrario non sarà possibile salpare nella mattinata da Puerto Piramide e la guida Felipe anticipa il percorso naturalistico nella Riserva, dove incontriamo gruppi di guanacos (una specie di lama selvatico), una volpe grigia patagonica, delle "maras" (sembrano enormi roditori, altro che "lepri della Patagonia"…) (v.foto) , un paio di rapaci detti "chimangos" e tante, tante pecore brucanti. Tutto qui è proprietà privata ed ogni tanto valichiamo un confine che sbarra la strada sterrata.

In bus assaporiamo del "mate", passandocelo tutti come il calumet della pace degli indiani del Nord America. "Fa" gruppo (in termini scientifici, favorisce la "gruppazione"). La "yerba mate" è la foglia secca dell' ilex paraguayensis, una pianta imparentata con il nostro comune agrifoglio. Nota come "tè paraguaiano", non ha avuto la fortuna di altri nervini introdotti in Europa come il caffè e il tè. In Sud America invece, soprattutto fuori dei grandi centri, è presente dappertutto e non c'è lavoratore che non esca di casa con una bottiglia termica di acqua calda. A Buenos Aires vi sono venditori di acqua calda che girano con le bottiglie su sgangherati carrozzini. Si prepara riempiendo di yerba sino a tre/quarti la tipica coppa (matero, ricavata da una zucca, la calabaza) . Vi si versa acqua calda (non portata a bollitura!) e senza aspettare i tempi di infusione si assapora suggendo con una cannuccia di materiale vario, la bombilla. Il sapore è amaro, all'inizio. Si sugge e si passa ad altri perché il mate è anche rituale di socializzazione (con la stessa bombilla, talora!). Grande gentilezza è per esempio fare da cebador colui che prepara l'acqua calda con il bollitore (pava) e ne versa ad altri, rimboccando secondo necessità. La yerba si vende in tante confezioni (più grezza, con palitos, o più raffinata) ma il vero patagonico lo consuma "amargo", senza zucchero; verso la Pampa e nella capitale lo preferiscono dolcificato. A Misiones, al confine con il Brasile lo abbiamo consumato amaro.

Felipe ci spiega al microfono alcune cose nel mentre il pulmino percorre le sconnesse strade a ghiaia che sono una vera insidia per chi non è pratico. Una donna del luogo è morta con il fuoristrada, ci dice la guida, una settimana prima, sbandando: toccare il freno sulla ghiaia alle elevate velocità di qui è un suicidio. Non si può procedere tenendo la mano destra. Si corre sulla bombatura centrale della carretera sollevando polvere che si aggiunge alla polvere del vento impetuoso. Meglio così, almeno se viene un mezzo in senso contrario la polvere te lo segnala. A dire il vero si incrociano pochissimi mezzi, malgrado la Riserva sia frequentata turisticamente e ci si saluta con un colpo di claxon. Altri guanacos ci attraversano inaspettatamente la strada - ricordano per la agilità di gruppo gli impala africani. Li evitiamo con un rallentamento provvidenziale e loro ci sfilano eleganti davanti. Ci fermiamo al Centro de Interpretacion, che sorge a metà dell'istmo, sulla sottile striscia di terra che collega la penisola al continente: di fronte c'è la Isla de los Pajaros, inaccessibile ai visitatori e vera riserva per una ventina di specie di uccelli marini.
Il bus parcheggiato porta sulle ruote posteriori un sistema di tubi misteriosamente connesso ai pneumatici. Ci spiegano che sono collegati al compressore del mezzo e consentono di sopperire alle più che probabili forature: producendo aria compressa e mantenendo comunque un certo grado di pressione nelle camere d'aria anche in caso di forature di media entità, il mezzo di trasporto può raggiungere il centro più vicino senza rischiare.
Il problema di ricevere e dare aiuti è assai problematico e sentito qui. Oggigiorno ci sono i telefoni cellulari ma non sempre c'è "campo" fuori della cittadina (persino a Buenos Aires ci sono problemi con cellulari a tre bande); sono pochi i ripetitori - e costano troppo per i pochi utenti; le linee telefoniche sono incomplete perché staccare una linea e portarla ad una fattoria (estancia) richiederebbe superare distanze di decine di chilometri e sarebbe una spesa a carico del proprietario (ne fruirebbe solo lui)… Insomma in Patagonia, soprattutto fuori delle zone più abitate (come la Peninsula Valdez p.e., che è già fortunata) si comunica ancora molto via radio. Le isolate estancias che punteggiano la Patagonia sono come galassie sterminate ma lontane tra loro. Sono percorse a cavallo dai gauchos e dai sonnolenti erbivori allevati e arrivano a misurare centinaia di migliaia di ettari. Qui non è la piovosa e lussureggiante Scozia. La steppa offre poco da mangiare e un ovino richiede qui ben dieci ettari (!) di pascolo povero per sopravvivere e far sopravvivere il pascolo stesso e così i conti sono presto fatti: se si hanno mille pecore occorrono diecimila ettari di tenuta…. Vita dura. Come in Australia i centri abitati si aprono con posti di polizia: quando uno lascia l'abitato A verso B avvisa il posto di polizia di B che arriverà alla tale ora e se non arriva per l'orario previsto scatta il soccorso. Impensabile per la vecchia cara Europa. Solo in Puglia abbiamo centri abitati di cinquanta-centomila abitanti nel giro di dieci km l'uno dall'altro (certo non è così in Francia ma l'Europa ha una densità di popolazione che se la sognano in Oceania, Canada e Sud America). I soccorsi sono anche legati alla tradizione religiosa come le edicole della Defunta Correa, con tanto di bandiera rossa, punti che, costellando i bordi delle carreteras, offrono da bere "agli assetati"e talora da mangiare ai trasportatori in difficoltà: chiunque può approvvigionarsi (o lasciare da bere e mangiare, se ne ha) nei nodi di questa rete spontanea di solidarietà (anche questa una lezione per noi europei).

Al Centro de Interpretacion dove ci ha lasciati il minibus onestamente non c'è gran che. La torre di osservazione consentirebbe l'osservazione della Isla de los Pajaros attraverso cannocchiali ma è impossibile stazionarvi a lungo perché spazzata dal vento senza pietà alcuna. Comunque è bello il paesaggio brullo e rude dall'alto e consente di farsi una idea della durezza di vita da queste parti. Anche tenere in linea un teleobiettivo di foto-telecamera è un problema qui (come in tutta la regione). E' ragionevole usare tempi di scatto veloci (e quindi pellicole e sensibilità da 400 ISO) perché "trema" tutto, anche con treppiedi ed il "mosso" è assicurato. Lo scheletro triste di una balena franca australe ("spiaggiata", dicono e spero) ci attende nella povera ma solida costruzione centrale. Qui il custode (improvvisato? nuovo?) sembra non sapere neanche dove si accendono le luci artificiali.
Raggiungiamo Caleta Valdez, a ridosso di Punta Norte e qui, dopo una bella passeggiata, sul mare sottostante incontriamo i primi mammiferi marini intenti a sonnecchiare sotto il sole. Ci spostiamo verso sud a Punta Delgada con annesso Faro. Gli elefanti marini, veniamo a sapere, si sono spostati in una cala meno accessibile. La raggiungiamo. Si tratta di scendere da una infida duna alta un centinaio di metri con un percorso a zig-zag che vede il piede affondare pericolosamente ad ogni passo: naturalmente a complicare la discesa vi è il Signor Vento che ti da spinte a destra e manca (cominci a credere paranoicamente che ce l'abbia con te). Giù ci avviciniamo senza far innervosire gli animali e senza tagliare loro la strada di fuga verso l'acqua. Da vicino ricordano obesi pascià. Il maschio "l'hai fatto veramente brutto, Signore", avrebbe detto l'indimenticato comico napoletano Troisi: quattro-cinque metri di corpo con quattrocento chili di peso inducono rispettosa distanza ma la protuberanza nasale, sempre cangiante nelle diverse prospettive, lo rendono grottescamente orribile. Ben altra cosa le più aggraziate femmine. Il tanfo di escrementi mi dicono che è forte (io non sono famoso per la capacità olfattiva a causa di una rinite cronica di natura allergica). Mammiferi adolescenti giocano tra di loro a configurare un triangolo e sono un bello spettacolo nello scenario di rocce e cormorani. Risalire la duna non sarà facile e ci riusciamo a fatica (se soffrite le "altezze" non guardate giù). Mangiamo bene al Faro.
Nel pomeriggio giunge la notizia che Puerto Piramide, sul Golfo Nuevo, si aprirà, a causa del maltempo, per fare uscire (e spero rientrare) una sola barca. Noi ci siamo prenotati per il whalewatching (così si dice oggi per "osservare le balene") e quella barca che ci attende è proprio la nostra. Il barcone cabinato con comandante e un solo mozzo (una ragazza che non parla lingue straniere) ci fa salire a bordo con un gruppo francese. In tutto una ventina di persone. Il barcone viene calato in acqua dalla spiaggia lungo binari di pali lignei. I francesi risultano poco collaborativi e non capiscono una parola delle istruzioni: noi ci prodighiamo a tradurre in inglese ma sembrano non trovarci molto simpatici. Con indosso le cinture di salvataggio, salpiamo. Appena fuori della protezione del porto l'oceano si fa subito sentire con un forza due-tre che nel Mediterraneo sconsiglierebbe la navigazione a molti turisti. Tra rollio e beccheggio, ci inoltriamo alla ricerca di balene franche australi, quelle, per intendersi, con le caratteristiche incrostazioni che ne alterano il profilo del muso (Balena Glacialis Australis, Ballena Franca Austral, Southern Rightwhale).Nulla. Ancora nulla. Il tempo passa. Dove sono finite? Non si ripeterà, mi dico, ciò che mi accadde nella False Bay, in Sudafrica? Nulla anche lì. Dopo ore di appostamento reverenziale, mi sfuggirono e dovemmo desistere. Invece nelle acque patagoniche, all'improvviso eccole. Tutti gridiamo eccitati, come bambini. Sono emerse. Potenti, sinuose, sontuose e inarrivabili sono emerse come un fantascientifico sottomarino nei romanzi di Giulio Verne. Mi sento al cospetto del misterioso Capitan Nemo. Il freddo mi taglia le dita (non si può riprendere con i guanti). Sono armato della fiocina più innocua al mondo: la mia Canon armata di tele da 400 mm. Avvistare le balene e seguirle nel mare mosso è matrice di ricordi incancellabili. Come l'incontro con l'orma del leone nel bush africano. Le balene - due - danzano nel moto ondoso con vetusta e magistrale tranquillità irridendo noi che stiamo attaccati ad ogni maniglia per non essere sbalzati fuori bordo. Fotografare da quella posizione da chirotteri, impugnare l'attrezzatura pesante con una mano sola, mantenere la mira e proteggersi dagli spruzzi dell'oceano e di chi vomita accanto è decisamente meno poetico. Ma alla fine ci sono riuscito. Ho colto con una raffica di foto la coda della madre che sosteneva il cucciolo nell'incavo della coda. Siamo rientrati alla base, giulivo (io), altri meno (sconvolti dal vomito che il mozzo va rimuovendo in guanti con consumata rassegnazione).
Mentre ci tirano in secco,una compagna di viaggio, presa dalla nausea incipiente - ha soccorso gli altri del gruppo -, si affaccia confusa a babordo per vomitare anche lei e sta rischiando di essere decapitata da un palo beffardo che vedo avvicinarsi alla sua testa ignara. E' come in un incubo notturno, so e mi sento impotente. Sono troppo lontano per acciuffarla. Le grido qualcosa con tutte le mie forze per attirare la sua attenzione nel frastuono di uomini e vento. Un miracolo (il mio?) la fa voltare verso di me. Il palo, beffato, le sfila di dietro ed io mi accascio.
- Che c'è? - mi chiede con volto sofferto ed interrogativo. Mi accascio sorridente. Le spiegherò dopo che stava per fare la fine di Maria Antonietta.
Nell'emporio "fenicio" di Puerto Piramide ci attardiamo comperando e bevendo. Ripulisco in bagno l'attrezzatura fotografica con acqua dolce. Per fare qualcosa. Ho da decantare emozioni diverse e intense. Mi riprendo a Puerto Madryn cenando da Estela. Simpatici i padroni. La donna, di mezza età, con occhialoni quadrati sproporzionati alla Elton John, afferma di essere metà basca e metà ucraina; il marito (una fotocopia di lei per gli occhiali e lo avevamo creduto il fratello) vanta origini italiane ma non sa una parola di italiano. Il cibo non è buono, la birra Quilmes salva tutto (fa dimenticare il tanfo di frittura che impera).
- Chi ha l'ultima parola tra un uomo e una donna? ah! ah!…L'uomo!…perché alla fine dice "Sissignora!"… ah!ah! - La signora è scherzosa e ci saluta con pacche sulla schiena. Uscendo guardo le decine di cartoline che sono trafitte alla parete: quanta gente è passata. Ed io pure.
Sono stanco. Domattina ci aspetta un giro simpatico nel centro commerciale di Puerto Madryn, con incontri ravvicinati ad altri oriundi italiani, assai ospitali e rispettosi. Altro "transculturale" mate, acquisti convenienti, il trasbordo a Trelew ed il volo di due ore per la Fine del Mondo. Ushuaia, nella Terra del Fuoco. Non nascondo che avverto una contraddittoria sensazione di insicurezza e determinazione.
E l'alba comincia con una danza di balene nella baia antistante l'albergo. Nella calma assoluta di sole e mare. Sono venute a ringraziarci dei sacrifici fatti nel Golfo (o a prendersi beffa?).
Tierra del Fuego

La sera del 22 Agosto 2003 atterriamo all'aeroporto di Ushuaia nella tormenta di neve. Le prime avvisaglie di maltempo le abbiamo colte dopo il decollo da Trelew (Peninsula Valdez). Che la turbolenza non fosse "bianca" lo abbiamo capito dalla mancata visibilità lungo la tratta che ha impedito di riconoscere il territorio sottostante ed in particolare l'atteso stretto di Magellano (Magallane in spagnolo); che fosse turbolenza "nera" lo abbiamo intuito dai giri insoliti che il jet è stato costretto a compiere quando oramai dovevamo essere sulla destinazione. Si sa, in questi casi si chiacchiera e scherza per esorcizzare timori. Il volo è stato appena turbato dalla presenza chiassosa di energumeni che poi si sono rivelati atleti di una squadra di rugby in trasferta: contegno sfottente e qualche smargiassata hanno indotto il personale di bordo a contenerli con qualche sorriso e attenzione in più. Uno degli atleti, sentendoci parlottare tra noi si è permesso di dire in italiano stentato: "Ah!…Italiani…mangia-spaghetti…" con un sorriso chiaramente dispregiativo, al che mi volto e rispondo in modo lapidario e con altrettanto pseudosorriso : "Non mangiamo solo spaghetti ma anche storia, cultura e tolleranza…". L'aver risposto in spagnolo blocca ulteriori commenti del gruppo, che comincia a riparlare di sport e attività connesse.
Come un condor miope, l'aereo ha volteggiato su Ushuaia per una mezzora buona, prima di decidersi a forare l'impenetrabile coltre di nembi. E' inevitabile trattenere il respiro quando si seguono queste manovre perché non sfugge a nessuno che la pista qui è praticamente sul mare gelido e non sarà neanche lunghissima. All'atterraggio la gente batte le mani (io aspetto il termine della frenata per unirmi nervosamente all'ovazione spontanea). E' fatta.

Prima dell'uscita controllano i bagagli anche per la frutta (forse una misura protezionistica antiparassitaria). Lo fa un signore in camice bianco che figurerebbe bene dietro al bancone di un supermercato ma il volto è quello tipicamente severo degli uomini cui hanno affidato un ruolo di "controllo" (e non di "controllato"). Fuori ci attendono la bufera di neve, il Signor Vento all'ennesima potenza (i carrelli dei bagagli sono ribaltati) ed una temperatura di -8 gradi centigradi. Attraversiamo nella magia del silenzio un abitato che si caratterizza per luci da presepe napoletano e tetti nordici. Il paesaggio che si intravvede al di là dei fiocconi di neve è deserto di uomini ma non di cani (ma come fanno a resistere le povere bestie?). Raggiungiamo il Tolkeyen su di una collinetta, vicino al canale di Beagle e, isolato come è dalla manciata di case del centro cittadino, l'albergo di legno assume nella fantasia cosmopolita il ruolo di rifugio alpino. Siamo nella città più a Sud del mondo, come scrisse Chatwin e ce ne rendiamo ancora più conto perché testardamente, dopo cena calda, usciamo in taxi per raggiungere l'unico posto dove si trovi anima viva, il Casinò. Il tassista, in maniche di camicia (rinuncio a descrivere come fossimo bardati noi..), ci dice che qui da due mesi non nevica e tutto è cominciato il giorno prima. Rispondiamo che in Europa vi sono quaranta gradi sopra zero un po' dappertutto e lui si mostra sorpreso. Alla Terra del Fuoco - la parola "fuoco" deriva dalla osservazione di "fuochi" sull'isola da parte dei primi naviganti - la temperatura invernale "è buona" perché oscilla tra zero e meno dieci; d'estate si arriva ad un massimo di quindici-diciotto gradi sopra zero (qui è tutto in scala Celsius). All'uscita del Casinò ci prendiamo a palle di neve, pensando ai nostri cari che in Europa stanno in un forno a micro-onde. Bella dormita.
Ushuaia, grazie ad una presenza turistica crescente, si è trasformata da piccolo paese di pescatori a cittadina graziosa di circa quarantamila abitanti.
Degli indios fuegini qui abitavano e cacciavano, ricoperti solo di pelli di guanacos e grasso, gli Yahganes (Yamana): di loro non è rimasto che la grafica ripresa dall'artigianato locale. Riprendendo oggi temi della scomparsa cultura yamana, i bianchi sembrano voler sfruttare anche i morti, anche quelli che hanno contribuito a fare fuori con pallottole e virus (di malattie sconosciute). Sino al secolo XIX si ricompensava con danaro chi avesse "cacciato" un indio fuegino e ne avesse portato un orecchio come prova della uccisione. Come si faceva in Europa con i lupi. Un certo Red Pig (sì, "Porco Rosso") si vantava di uccidere indios solo "per diletto", mai per danaro e, sfuggito miracolosamente a vendette indigene, finì ucciso - per contrappasso dantesco - solo dal "delirium tremens": inseguito da angosciosi e cruenti ricordi lo ritrovarono nella selva, impazzito e morto. L'ultimo yamana fu Ernestina (in foto a colori), di cui sopravvivono testimonianze fotografiche e televisive.


La Terra del Fuoco era divisa tra Selk'nam (Ona per Chatwin), Haush (Menekenk), Alakaluf e Yamana (Yahganes)… Tutti praticamente scomparsi dalla faccia della (loro) terra. Abbiamo l'obbligo di nominare uno per uno i veri nativi. Erano cacciatori di terra o mare (sul canale di Beagle o nello stretto di Magellano che divide la Terra del Fuoco dal grosso del continente). La terra era di tutti e gli indigeni non comprendevano perché i bianchi recintassero spazi e si innervosissero tanto da sparare quando qualcuno varcava confini o si appropriava di una pecora, che era lì a portata di mano. Una pecora era più facile da cacciare che un guanaco. Per loro le pecore importate erano strani guanacos. Anche i guanacos erano di chi fosse capace di cacciarli. Qualche bianco, come i salesiani Giuseppe Fagnano e Alberto Maria de Agostini, li difendeva e cercò comunque di catechizzarli mentre li osservava pescare sulle esili canoe di corteccia. Essi hanno lasciato tuttavia una presenza spirituale che aleggia nei piccoli e semplici abitati dell'interno e sfrutta per la diffusione l'eterno vento patagonico.
Al mattino del 23 agosto la tormenta di neve ci sveglia in una atmosfera di cani sanbernardo e persone infreddolite ma contente (ci sono spagnoli con noi). Ci inoltriamo con il minibus nella Riserva Naturale tra neve e laghetti di colore irreale. Gli alberi presentano qui e là delle palle gialle, quasi fossero alberi natalizi: si tratta delle "lampade cinesi", piante epifitarie.Ci fermiamo a la Bahia Lapataia (in yamano "bosco" e "legno").
Ci dobbiamo fermare per forza perché qui termina la strada nazionale numero tre (Ruta Nacional 3). Non ci sono più strade al mondo dopo questa verso sud. Impressionante. E' l'ultima strada della Terra prima dell'Antartide, che dista da qui solo mille chilometri di mare. Malgrado la bufera in atto siamo attoniti, tra il serio ed il faceto. Come i giornalisti del mezzo fuoristrada che si è unito a noi. Si parla ingoiando fiocchi di neve, io la assaggio la neve e l'acqua della "fine del mondo" mi cola sfondando lo stomaco e la psiche. Mi sento vivo e soddisfatto. Il tempo permane brutto nella giornata. Rientrati ad Ushuaia, facciamo compere e verifichiamo la antipatica accoglienza dei negozianti, già notificata dalle guide accreditate. I venditori della città non sembrano interessati a vendere e sembrano irritati dalla presenza di visitatori; eppure nella situazione economica argentina il danaro straniero (dollari, euro) contano parecchio. Ho come l'impressione che questo atteggiamento non sia riveniente dalla transizione da centro di pesca a centro turistico; forse, mi viene il dubbio, si tratta di personale dipendente che non lavora nel "proprio" negozio e che quindi ha solo fretta di "timbrare l'uscita al marcatempo". I prezzi di libri e ricordi sono poi alle stelle ed i prezzi non sono trattabili.
Facciamo uno spuntino abase di pollo ai ferri e insalata in un cordiale bar-ristorante, nei pressi della Av. Maipù; tra poco arriva il bus, di fronte all'albergo Albatros. Cerchiamo di non far tardi all'appuntamento con il resto del gruppo.
Il porto è una cartolina di moli imbiancati dalla furia notturna, cui fanno da contrasto le acque cariche di azzurro. Le navi da carico immote, nel silenzio ovattato che solo la neve sa originare. Se non fosse per i colori allegri, prontamente vivacizzati da raggi di sole che forano all'improvviso l'atmosfera bigia, si azzardarebbe che quei bastimenti siano stati abbandonati dagli equipaggi. Nessun essere umano e neanche gli onnipresenti cani. Solo gli uccelli marini ti svegliano dalla ipnosi senza tempo, e ti ricordano con giri tranquilli che la scena non è una foto bensì un film. E tu sei lì e non ti meravigli di esserci. Consulti l'orologio per verificare da quanto tempo. Mi è capitato di perdermi nelle correnti del fiume Chobe, in Africa. Non è un perdersi ma un ritrovarsi. Mi sovviene un ricordo.
Ricordo che, agli inizi della professione medica, stavo (quanti anni sono passati?) raccogliendo la storia clinica di un anziano pugliese: era un vecchio e dignitoso "delinquente" di una volta, con tanto di bastone con testa canina eburnea e conservava nel suo sguardo la antica sfida al mondo, anche dal bordo di un letto di ospedale provinciale. La mia penna si fermò sulla cartella al racconto. Lo ascoltavo nel mentre mi narrava. Non parlavamo di patologie pregresse. A diciotto anni, disse in un dialetto infarcito di termini italiani che ne attestavano la cultura "sul campo", ai primi del Novecento era emigrato verso il Nord America con una nave che lo aveva portato a Nuova York.
"Allora non c'erano ancora tutti quei grattacieli", ebbe a precisare.
Sceso a N.Y. si era ritrovato in un gruppo multietnico ed in un litigio tra bande si trovò coinvolto nell'accoltellamento di un portoricano. Stava per arrivare la polizia. Scappò. Doveva scappare ancora. Al porto si infilò da clandestino a bordo di un cargo, senza sapere quale fosse la destinazione. Ebbene, dopo giorni di navigazione, si ritrovò in un porto sconosciuto e lui, analfabeta, chiese a qualcuno.
"Dove sono arrivato?"
"Nella Terra del Fuoco" gli rispose un coetaneo che lo guardava e riguardava.
"Che c'hai da guardare?" chiese lui sospettoso e si accorse d'un tratto che parlavano entrambi la stessa lingua. "Di dove sei?", chiese.
"Di Trani"
"Paisa', anche io!" .
Si abbracciarono.
La Terra del Fuoco. Terra lontanissima. Un compaesano a migliaia di miglia da casa. Mi aveva colpito tanto il racconto, sia per il periodo storico, sia per la Terra del Fuoco, che presi a desiderare. Forse stavo guardando il molo donde era sceso quel ragazzo del Novecento.
Ci chiamano. Mi chiamano. S'è fatto tardi. Salgo come rattrappito sul minibus e partiamo per l'interno dell'isola, per la Valle della Tierra Mayor. Vogliamo andare in slitta, malgrado il maltempo e così dei siberian huskies ci traina a meno dodici gradi (scena da dr. Zivago, in Russia). I cani incitati dalle grida ignote dei conduttori ci trasportano infischiandosene della bufera: ora si ringhiano, ora si cercano e si parlano come compaesani. In effetti vicino al rifugio, l'insieme di canili di legno, con tanto di cuccioli che si affacciano curiosi, forma un vero e proprio villaggio per cani, dove manca solo una chiesetta (se potessero magari la chiederebbero).
Al rientro nel rifugio, al calore del camino acceso quasi ci spogliamo dal caldo. Stanno arrostendo carni ma anche - inavvertitamente - un bimbo lasciato in carrozzino troppo vicino al fuoco. Avvisiamo prudentemente la madre dsitratta di allontanarlo un po' ma la madre se ne frega. Allora le diciamo di "girarlo ogni tanto", per arrosolarlo meglio e lei ride stupidamente. Decido di concentrarmi sulla tazza di cioccolato caldo. Le chiacchiere si protraggono con una famiglia di oriundi italiani che ci offrono orujo argentino (una specie di grappa) e pisco cileno. Al Tolkeyen si cena con zuppa. Io disegno un poco sul moleskine e organizzo gli appunti prima di cadere in un sonno profondo.
Il giorno dopo, il 24 agosto, il maltempo si è arrestato. Il sole si fa strada attraverso ampi varchi di nuvole, rese sempre veloci ed imprevedibili dal Signor Vento Polare. Il porto di Ushuaia è stato riaperto alla navigazione ed il battello - moderno- ci trasporta attraverso il canale di Beagle, che si chiama così dal nome della nave Beagle del capitano della Royal Navy Robert FitzRoy, alla prima missione di esplorazione. Strano tizio il comandante: cercava attraverso i viaggi avventurosi nei mari australi prove della veridicità biblica. Molte persone nell'Ottocento credevano che la Bibbia fosse una fonte di informazioni più che attendibile e attuale: basti ricordare che Kruger, il presidente della repubblica sudafricana, tanto saggio da aprire la prima riserva naturale dell'Africa (appunto la Kruger), si dice consultasse la Bibbia per ritrovarvi anche risposte alle iniziative politiche dei Boeri.
La cosa strana è che, alla seconda missione, la nave Beagle ospitò un uomo animato da ben altri intendimenti: Charles Darwin avrebbe tratto la giusta ispirazione per la teoria dell'evoluzionismo (che avrebbe rivoluzionato tutto il pensiero scientifico) proprio da quel viaggio (p.e. studiando i becchi degli uccelli, detti poi fringuelli di Darwin, delle vicine isole Galapagos).
Sulla miriade di isolette del Canale ci sono convegni naturalistici di ogni tipo che fanno scattare decine e decine di foto, tutte interessanti: elefanti marini, lobos marinos, cormorani imperiali, palomas antartiche, gabbiani dal becco rosso, rapaci che attendono pazienti gli errori di cuccioli e piccoli di ogni specie. E' l'arcipelago Les Eclaireurs, a 15 km Est da Ushuaia. La puzza di guano è notevole ma stavolta il vento aiuta le narici, oltre che arrossarle. Doppiamo il Faro di Les Eclaireurs e si fa ritorno. Da "Tia Elvira" mangiamo una buonissima centolla alla provenzale con una "impepata" di cozze gigantesche. E' una specie di granseola la centolla. Ci voleva! dopo giorni di carne, carne e carne argentina.
Facciamo nel pomeriggio una visita al Museo-carcere della città (lo trovo triste e solo istruttivo: quanta sofferenza trasuda dalle pareti scalcinate delle celle).








Lago Argentino
El Calafate e provincia di Santa Cruz

El Calafate è una pianta, dai cui frutti si produce una marmellata simile a quella nostrana di more. La pianta è un arbusto caratteristico ("Berberis buxifolia").La città omonima è nella provincia di Santa Cruz, a trecentoventi km a NO di Rio Gallegos. Una volta non esisteva aeroporto ad El Calafate e quindi si sbarcava a quello di Rio Gallegos. Era più affascinante il percorso di prima senza dubbio. Si prendeva il lento torpedone e si attraversava quella parte di Patagonia che ti premia, dopo tanta steppa, con la vista del grande Lago Argentino (di nome e di fatto). Sul tale allungato specchio d'acqua si situano El Calafate, il centro maggiore (cinquemila abitanti), e aggregati di case che non si possono neanche definire paesi, ad esempio Puerto Bandera che conta venticinque anime. L'ineffabile bellezza della regione è tutta nella singolarità della natura: qui, verso il Lago, sboccano, dopo la loro corsa viscosa, ghiacciai enormi che sono per altitudine, tra i più "bassi" al mondo. E' come se - chiediamo venia ai geologi per la banalizzazione - sulle Murge pugliesi o sulle Highlands scozzesi ci fossero ghiacciai alpini. Nel Parque Nacional de los Glaciares si incontrano molti colossali fiumi di ghiaccio, eredità dell'ultima glaciazione.
Il più grande dei due ghiacciai più noti è l'Upsala, che prende il nome dalla università svedese che ebbe a studiarlo nel XIX secolo, finanziando diverse spedizioni: mille kmq e sessanta km di lunghezza (purtroppo si è ritirato nell'ultima decade come molti altri nel mondo); il fronte del ghiaccio è alto sessanta-ottanta metri e largo cinque-sette km.
L'altro ghiacciaio, il Perito Moreno ben più famoso (anche per film che lo citano, es. il gustoso e italiano "Le tre mogli" dove tre mariti scappano in Patagonia e tre mogli si coalizzano nella loro ricerca). Porta il nome dello studioso Moreno che svolse "perizie" per conto del governo argentino volte a definire i confini della nazione in rapporto ai paesi limitrofi: ma il Moreno non vide mai il ghiacciaio, che misura "solo" duecento kmq di estensione, trenta km di lunghezza : il fronte è comunque maestoso con una larghezza di quattro km ed una altezza che varia tra trenta e sessanta metri.
Ad El Calafate soggiorniamo all'isolato albergo Kau-Yatùn, che in araucano significa "casa delle stelle". Ed in effetti, col cielo notturno più sereno che altrove, mi ricollego visivamente alla Croce del Sud che non rivedevo dai tempi dei viaggi in Africa australe ed in Asia equatoriale. C'è anche la Via Lattea da mirare ma la visione non è mai limpida come nei ricordi del bush-savana. Il paese e la Avenida del Libertador General San Martin sono deserte di sera. Nella notte passa e ripassa un pick-up con lo stereo a volume elevato con giovani annoiati e rimaniamo in gruppo per precauzione. Vedere la postazione dei bomberos e della polizia induce una falsa sensazione di sicurezza: se ti dovesse succedere qualcosa non lo saprebbe nessuno fino all'alba.
Gradevolissima ed educata la guida Fernando, che abita con la famiglia in un paese vicino che non ricordo (avrò pensato in quel momento "ancora più tranquillo di qui?" e non l'ho inteso). Al sorgere del sole e per raggiungere il villaggio di Puerto Bandera costeggiamo sulla nostra destra il Lago Argentino che si sveglia nei colori. Ci attende una giornata di sole e freddo, l'ideale per incontrare i primi "tempanos", gli iceberg. Con il battello, che sembra etnicamente una sede distaccata dell'ONU, ci muoviamo imboccando il Brazo Norte, verso il Brazo Upsala. Il ghiacciaio ha per nunzi apostolici tutta una serie di muti blocchi di ghiaccio che si ingrandiscono quanto più ci si avvicina alla sacralità del ghiacciaio-madre. La nave li scansa con maestrìa questi iceberg, sempre più massicci, policromi e silenti: evocano figure umane, sembianze animali, oggetti e colgo i commenti più vari e rapiti dietro tante dita tese ad indicare i fantasmi di ghiaccio. La pace è rotta solo dal borbottio del motore e dagli scatti degli otturatori fotografici (per la circostanza adopero anche S.M. Hasselblad che quando scatta ricorda classicamente "un colpo di tosse di nobile inglese"). La Hasselblad, che è nata in Svezia, sembra riconoscere i rigori invernali e qui si trova a suo agio (le dico mentalmente di non rimanere male quando scoprirà che non ci sono renne qui). Scatto anche con la Canon e la telecamera digitale: sono circostanze irripetibili nella esperienza. Cerco di cogliere le luci come un pittore impressionista ma so di non essere Monet.
Dopo il ghiacciaio c'è tempo per un panino a bordo e per ricaricare le macchine. Si va verso labaia Onelli, dove attracchiamo per dirigerci a piedi (trekking) attraverso il bosco verso il lago Onelli. Nel rumore di scarponi e fango si ode nella foresta il battito ligneo di un picchio magellanico (campephilus magellanicus): la femmina è lì sull'altissimo ramo e solo il tele riesce a congelarne la magnifica testa rossa che si muove ritmicamente come una trivella (il nome spagnolo di carpintero rende l'idea). Il maschio scuro sta appostato nelle adiacenze del nido su di un altro albero. Ci inoltriamo tra tronchi e la selva si apre improvvisamente sulla pietraia: il lago ghiacciato di Onelli è incantevole dal basso e, alzando lo sguardo terricolo, indico un volatile altissimo nel cielo, un punto che rotea. Il condor evoca un bombardiere d'alta quota ( e ne sono stati segnalati anche a quote di jet, talora). Sorprende invece nella riserva la presenza di migliaia di vacche quasi "svizzere" che si aggrappano a pendii mostruosi per pascolare. Erano originariamente addomesticate eppoi sono scappate e si sono inselvatichite: anche i cavalli introdotti dagli Spagnoli si inselvatichirono e proliferarono con successo tra Pampa e Patagonia. La guida dice che qui ci sono puma ma la cosa mi suona strana (come è possibile che con tanti erbivori non si trovi mai una carcassa predata inequivocabilmente da felini non me lo sa spiegare neanche lui). Sulla distesa abbacinante dell'Onelli assaporo un pezzo di ghiaccio placando la sete. Mi suggestiona la sensazione di una acqua millenaria che mi ricollega ad antichi abitanti.
Il giorno dopo (26 Agosto 2003) apprezziamo all'alba frizzante che la cittadina di El Calafate ha un aspetto grazioso. In minibus ci portiamo al lato nord del Perito Moreno, cui ci avviciniamo in battello. Gli occhi sono fissi nel tentativo di cogliere la eventuale caduta rovinosa di blocchi di ghiaccio. Ne cade solo uno distante, con un rumore di esplosione di cava.

Facciamo colazione al sacco nella Bahia del Viento del Norte. Sarà difficile dimenticare un panino tra lago Argentino e sfondo di Perito Moreno, in compagnia di un gattino che rincorreva uno scaltro uccello e sotto lo sguardo vigile di un chimango sopra di noi, sul ramo alto di un albero. Ripartiamo con il gruppo per una scarpinata in saliscendi, di passerella in passerella, finchè ci sfila dinanzi sempre più ingombrante il lato sud del Perito Moreno. Oramai è pomeriggio ed il caldo del sole ha espresso il massimo possibile: miro le guglie di ghiaccio in attesa di cacciatore. O cadono ora o mai più nella giornata, mi dico. Scricchiolii sinistri, cupe esplosioni (interne alla massa) tradiscono la falsa fissità del ghiacciaio. Quella guglia appare in bilico più di altre. La fissiamo ed avviene il miracolo. Una esplosione più acuta e il pinnacolo si smuove come colpito da un malore, si torce, si inclina al rallentatore e precipita verso le acque sottostanti con una breve corsa di fragore e schiuma. L'onda di marea spazzerebbe qualunque barca troppo vicina. Da quella morte nasce un iceberg che, riemerso faticosamente, comincia ad incamminarsi sospinto da mani invisibili. Raramente mi sono sentito così vicino alla "origine delle cose". Quel pomeriggio cadranno altri quattro blocchi. Quasi cominciamo a farci l'abitudine. Alcuni pezzi, calcolando che sono un terzo della facciata sono intorno ai quindici-venti metri d'altezza. Lasciare il Moreno è impresa ardua, si vorrebbe rimanere lì.


Lago Argentino

Lago Onelli

Nuvole patagoniche a nastro

Un Tempano sul Lago Argentino





Misiones




L'aerostazione di di Puerto Iguazù non è più grande di un motel autostradale. E' la fine di agosto e nella regione di Misiones la temperatura sembra primaverile ad un europeo che ha lasciato il continente in fiamme (35-40 gradi in tutta l'Europa). La vegetazione, dall'aereo si è fatta via via pluviale e fluviale, sempre più fitta, stratificata in piani come quella amazzonica (per chi confonde Amazzonia, Mato Grosso e Misiones ricordiamo che qui siamo al Tropico del Capricorno mentre l'Amazzonia è prossima all'equatore). Il nome Misiones viene dalle missioni dei Gesuiti che qui catechizzarono e difesero (anche con la vita) le popolazioni Guaranì. Lo splendido film "Mission" con Robert De Niro tratta di questa parte ingloriosa di storia allorchè la Chiesa di Roma, malgrado il bene disinteressato operato dai gesuiti, si piegò al volere delle superpotenze di allora (Spagna e Portogallo), interessate allo sfruttamento degli indigeni e alla tratta degli schiavi, abbandonando missioni e guaranì alla violenza di soldataglie senza scrupoli: le rovine di Sant'Ignazio attestano la tempesta di violenza che si abbattè sui malcapitati. I guaranì, che con i gesuiti avevano appreso l'arte delle costruzioni, della musica e del canto (sino a diventare buoni liutai), si ritirarono nella foresta per sopravvivere. Di lì a poco l'ordine stesso dei gesuiti fu sciolto per riapparire solo dopo il Congresso di Vienna e la Restaurazione.

La guida di Iguazù è un orgoglioso e signorile guaranì, si chiama Julio (viene da una famiglia di quattro fratelli e dieci sorelle). E' evidente quando parla della natura delle cose, del cammino del sole e delle ombre nelle varie stagioni, degli animali e delle piante ne parla per cognizione diretta: lui ha prima "visto" eppoi "studiato"; io ho prima studiato eppoi visto le cose. Eppure ci siamo simpatici dal primo momento. Mi racconta degli avvoltoi della testa rossa e dalla testa nera; di come riconoscerli in volo; di come, quando l'ombra si allunga sul ramo del capo-stormo, sulla sommità di due giganteschi alberi sulla Isla de San Martin, tutto il gruppo si invola per andare a dormire ad una quindicina di km da qui. Il posto degli avvoltoi è allora occupato dai tucani per la notte. "Così da sempre - sentenzia Julio - la Natura non sbaglia mai... tutto è al suo posto". Ci parla e indica ma gli animali qui sono assai sospettosi ed i turisti sono tanti e rumorosi sui camminamenti metallici sospesi sulle acque. Giaguari, puma, serpenti corallini e pseudocorallini ci sono ma non ne vedrò uno (non è come alle Cascate Vittoria, in Africa, ove chi ti attraversa la strada è un elefante o un antilope e non un turista giapponese). Per fare una foto qui bisogna combattere tra frotte di sudamericani, nordamericani. Qualche volta il traffico umano si dirada ed il fiume riemerge dallo sfondo sonoro anche quando si concentra lentamente prima del salto, il più largo al mondo. Il fiume Iguazù, affluente del Paranà - dopo le cascate - , compie una ansa sul pavimento basaltico che ricorda un tornante di strada montana: dopo la curva si ritrova a saltare sul piano sottostante spaccandosi in tanti fiumi e fiumiciattoli, tutti destinati alla caduta fragorosa, alta una ottantina di metri. Tra Brasile e Argentina si divide la platea e l'orchestra: dal lato brasiliano si apprezza il prorompente scenario che è tutto argentino, con al centro la Isola di San Martino, che in realtà è una penisola. Ecco lo schizzo rivelatore così come disegnato sul moleskine:



Il Parque Nacional de Iguazù fatto di camminamenti naturali, passerelle metalliche fornisce una falsa idea di sicurezza e modernità. Nella giungla si muovono cautamente invisibili i predatori (pochi anni fa il figlio di un ranger fu sbranato da un giaguaro). Tra i fantasmi vediamo spuntare due caimani, uno adulto più "professionale" e nascosto ed uno più giovane e spavaldo che si prende il sole sulla roccia, con la noncuranza di un divo di "soap opera", contento di essere stato riconosciuto. La Gola del Diavolo (Garganta del Diablo) è impressionante e altamente "energetica": staresti le ore a prenderti gli spruzzi e bearti al dolce frastuono che accarezza la mente.

Il giorno dopo sarà un camion militare ad attraversare un tratto lungo di foresta ed a lasciarci prossimi alla riva ove ci attendono barconi per il rafting controcorrente. Cerchiamo di impermeabilizzarci a bordo del natante che ostenta una motorizzazioner di tutto rispetto (quattrocento cavalli su due motori). Si parte. Velocità crescente e spruzzi crescenti ti avvisano che le rapide spumeggiano vicine. Ecco le prime. Planiamo con leggerezza sfilando tra i "Moschettieri". Lo scenario del puro divertimento (correre sulle acque e bagnarsi tutti ridendo come pazzi) è semplicemente indimenticabile. Siamo fradici al secondo passaggio e preoccupati solo per le attrezzature cinefotografiche (che qualcuno dovrà buttare). Ci sbarcano dopo il rafting sotto il salto Bosseti e ci inerpichiamo mentre l'acqua continua a defluire da tasche e vestiti. Dall'alto ci soffermiamo a contemplare (strizzandoci) il salto Bosseti, il salto Mbigua e San Martin: l'isola è vicinissima con i suoi avvoltoi. Dopo le balconate del Circuito Superior, cerchiamo di asciugarci al sole residuo.

Il bus ci prende e ci lascia a Puerto Iguazù. Dall'Hito de las Tres Fronteras, che abbiamo raggiunto camminando per un paio di chilometri nel paesotto tranquillo, il sole prende a tramontare con velocità tropicale. I nostri piedi calpestano suolo argentino. Di fronte a destra si stende, al di là dell'Iguazù che sta per fondersi al Paranà, il Brasile. Sulla riva destra del Paranà (che ci viene incontro) si intravvede la città dell'Est ed il Paraguay.

Tanta pace e bellezza stonano con la pericolosità dei luoghi: qui nel triangolo tra nazioni si rincorrono droghe, capitali sporchi e latitanti mafiosi che saltano da un confine all'altro (il più pericoloso versante, dicono, sia il brasiliano: ti uccidono per niente).

Ci aspettano in albergo. Prendiamo un taxi abusivo e inquietante dai vetri neri (è per il calore infernale dell'estate dice il tassista) ma a noi sembra da film di terrore e non vediamo l'ora di raggiungere gli altri a cena.




E' vero il detto:

ci sono luoghi ove tu rimani e luoghi che rimangono in te

(Hay lugares en los que usted se queda y lugares que quedan en usted).





Dr. Livingstone (a.m.)

R. Magritte - Le Savoir La porta Socchiudo la porta: s'intravede la luce La via non è fuori  È nel buio più intenso  nella parte più osc...