L'Amico Italo Zagaria, attore per diletto e non professionista che abita a Matera, ha frequentato corsi sulla comunicazione del SIEB anni fa. Oggi propone una coraggiosa riflessione tra Luigi Pirandello ed Eric Berne che trae spunto dalle proprie esperienze di teatro, condotte tutte con bravura ed umiltà, mai smettendo di interrogarsi sul proprio copione e sul copione proposto dal regista. Le sue riflessioni sul Teatro coincidono casualmente con la problematica, da noi sollevata, del teatro di Trani (che non c'è e ci dovrebbe essere).
L'ipotesi attoriale posta in questi termini sembra retorica, se pensiamo che l'attore rappresenta comunque buona parte di se' nel personaggio. Possiamo affermare anzi che sarà sempre la persona/attore a ''salire
sul palcoscenico'' insieme con lui. Prova ne è che la medesima scena raffigurata da attori diversi, venga rappresentata in tanti modi quanti sono gli interpreti chiamati a recitarla
-
Nella ricerca teatrale, in verità, capita che la persona-attore ''sbandi'' per essere sospeso (o tirato?)
fra il copione di vita (Berne)
''che resiste ma che comunque protegge,
e la ricerca medesima. Ma, fino a che punto è possibile ''tirare la corda berniana''? Forse la messa in scena, in quanto
suggestiva ed inconsueta,
lancia l’attore inconsapevolmente, verso un narcisismo teatrale rischioso, esagerato, 'oltre'
(trans)? Oppure esiste anche quella
dimensione che possiamo
definire benefica, rigenerante, se l'uomo-attore si disistima
o ristagna nella passività?
Certamente, in questa contingenza, pur con le luci della ribalta
e quant'altro arricchisce il contesto
scenico, la persona-attore “fragile” è portata
alla riconsiderazione e rivalutazione di se', e
alla riappropriazione delle proprie qualità nascoste e migliori. Il ''lavoro dell'attore su se stesso'' (come
dice Stanislavskij) gli consente,
anche e soprattutto, di riscoprire dimensioni inconsce. Egli è capace finalmente di non temere
l’inconscio, di fidarsi
di lui, poiché non più misterioso, semmai... fecondo. Con queste premesse,
possiamo affermare che quel ''lavoro'' è capace di corroborare l'intrapsichico, oltre che l'interpersonale, e, di seguito,
''completare'' il personaggio?
Oppure quel medesimo ''lavoro'' è naturale, spontaneo, non costruito, se pensiamo che lui, l'attore, è abile nel piacere ed ''entrare'' nello spettatore, anche agli inizi delle sue messe in scena, quando ancora tremava al cospetto del pubblico? In un caso o nell'altro, egli si è risanato e la vita, che gli sembrava
ostile, è ripartita.
Pensiamo tuttavia che le ritrosie del copione di vita ci possano indurre a
credere in un ''teatro conservatore'', in quanto capace di preservare e
comunque contenere le ''trame'' berniane della vita, che restano essenziali per
la sopravvivenza dell'individuo.
Per queste ragioni si pone il rischio della ''scissione attoriale'', e quanto
di se stesso
la persona-attore può offrire nella spettacolarizzazione, o quanto questa
sia utile e riuscita,
per lui e per lo spettatore. Perciò egli preferisce un ''lavoro
su se stesso e sul personaggio''' meno assillante, si da preferire
addirittura di ritornare
a memorizzare soltanto i copioni
di scena, senza neanche impossessarsi del sottotesto registico. O addirittura praticando un teatro che non faccia pensare...perché poi anche tormentoso. Or dunque, se l'attore, per ''inseguire'' il copione di scena, se ne infischiasse inavvertitamente del proprio, chi strepiterebbe per primo, oltre che se stesso?
Forse Eric Berne, lo psichiatra che, guarda caso ha definito la personalità dell'individuo un ''copione'' da rappresentare, per l'appunto, nell'arco della propria vita? O Konstantin Stanislavskij, l'attore- commediografo che, a ridosso della scoperta freudiana dell'inconscio, tracciava le linee giuda di una scuola attoriale fondamentale, nella realizzazione del personaggio?
Certo
prima di quest'ultimo, dall'Ottocento a ritroso
sino all'antichità, il teatro ha sempre ''accompagnato'' l'uomo nella storia, ma Stanislavskij
ha rivisto e suggerito in modo composito e distinto,
comunque senz'altro più pregnante, le mosse dell'attore, nella trasmutazione verso il personaggio. (Sperimentando su se stesso fra l'altro, in quanto anche attore oltre che teorico, le sue medesime
elaborazioni) -
Sta di fatto che la persona-attore intanto, in un eccesso
di analisi, può abbattersi, reprimendo le novità, apparse a volte più irritanti
che proficue. L'autonomia che ha ricercato come persona, spesso a fatica,
la stessa che gli ha dato la possibilità di divenire
soggetto e non oggetto della vita, potrà perdere
qualche colpo e le regressioni teatrali con le quali interagisce, potrebbero nuocergli, piuttosto che rivitalizzarlo.
Allora se un personaggio con un copione
scenico ingombrante soffocasse il copione personale, come si riprodurrebbe in tal modo la tanto ricercata autostima? Il conflitto
fra i due copioni si risolve a condizione che si proceda
con cautela, senza eccessi analitici.
Ancor più se il mattatore-persona sia nell'età
della maturità, ormai nella fase della sintesi
e non più della analisi, quando il ''suo''
copione è ben definito,
assunto e consapevolizzato. Le correzioni da apportare
al dipinto della sua vita, per quanto
sollecitate dalle vibrazioni del ''mettersi in gioco teatrale, resteranno circoscritte solo ad alcuni semplici ritocchi di contorno. Chi sa che egli non si defili,
senza essere protagonista della scena, ma di se stesso, nelle retrovie, senza attirare più l'attenzione. Così intende vivere, come persona
e come personaggio: è l'unico
modo per non mollare, in ambedue gli ambiti. Questo è il ''canovaccio'' tracciato sin dai primi anni della sua vita: e quando il narcisismo ridondante si allenta, l'uomo ritrova se stesso,
rinfrancato nell'affrontare una nuova disillusione della vita.
Il dado è ormai tratto,
le provocazioni sono state tante, e alternate, sul filo di un ''sì,
ma...'' berniano, poiché come ha detto Tirelli,
giovane critico teatrale di ''Repubblica'' quest'autunno, ''il teatro non dà risposte, pone domande''.
E le risposte,
attraverso questo mondo affascinante che ''scatena le relazioni, non è praticabile senza lo sguardo dell'altro, propone le grandi questioni dell'esistenza cercando un senso comune
e rendendo una storia, per quanto personale, universale'', le troviamo
magari dentro di noi quando, nel rispecchiamento degli anzidetti sguardi, seduciamo lo spettatore e noi medesimi.
Italo Zagaria
(tecnico comun. interpers. A.T.)
(apprendista teatrale)
Nessun commento:
Posta un commento