mercoledì 26 novembre 2014

Tre cuori - recensione



Il terreno di gioco è l'amore e la partita si gioca a tre, a dirigerla è il destino, unico vero protagonista dell'ultimo lavoro di Benoit Jacquot, presentato in concorso all'ultima Mostra di Venezia. Marc (Benoît Poelvoorde) è un ispettore delle imposte ed una sera, dopo aver perso il treno per Parigi, incontra per le strade di una cittadina di provincia Sylvie (Charlotte Gainsbourg) e a lei chiede indicazioni per un hotel, ma Sylvie tra un passo e una sigaretta diventa per Marc uno specchio a cui si concede, mentre si inoltrano verso l'alba che li sorprende con le anime affini. Tra loro parole, passi su passi, silenzi, ed i grandi occhi di Sylvie che si fermano in quelli di Marc mentre con due dita si porta gli angoli della bocca in su, disegnando un sorriso che gli offre in dono. Marc al mattino parte col primo treno, ed anche se non conoscono i loro nomi, si danno appuntamento a Parigi qualche giorno dopo, dove Marc non si presenterà in orario per un lieve infarto che lo coglie proprio quando sta per incontrare Sylvie che va via amareggiata. Le loro vite sembra che scorrano in parallelo, e mentre Sylvie decide di trasferirsi in America, Marc incontra Sophie (Chiara Mastroianni), una donna che si presenta presso il suo ufficio per un problema con la dichiarazione dei redditi e tra loro nasce presto una storia d'amore, ma Marc ignora che Sophie è la sorella maggiore di Sylivie. Il destino dopo aver giocato con Marc e Sylvie, unisce ancora i loro passi e li conduce verso un bivio dove il loro amore che era rimasto congelato tra le pieghe della vita, incrocia il forte sentimento che lega Sylvie a Sophie, dando luogo ad omissioni a cui solo la madre delle due donne (Catherine Deneuve) riesce a dare significato, alla luce di un forte legame che ha sapore di libertà e rispetto ed una complicità rara tra le tre donne. E sebbene il lavoro di Jacquot ci conduca a riflessioni alla Sliding doors, nelle quali ci si può perdere mentre la mente rimbalza tra una quello che è stato e quello che sarebbe potuto essere, a smorzare tale fascino è proprio la voce narrante che sente l'esigenza di spiegare, ed un inquietante e inopportuno sottofondo da horror (neanche da thriller) che incalza e stride, così come poco credibile risulta l'interpretazione di Poelvoorde che rasenta la parodia. Tanto che sui titoli di coda, per un epilogo che avrebbe potuto suscitare anche grandi e forti emozioni, ci sfugge un sorriso per una storia che di comico non ha nulla, in perfetto accordo con il contrasto tra il ruolo di Poelvoorde e la sua interpretazione.

Antonietta D'Ambrosio

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