Migrare è speranza
Migrare è portarsi una casa in un sacco
Migrare è paura
Migrare è bisogno
Migrare è scappare (come Lot)
Migrare è non sapere come si sarà accolti e se si sarà accolti
Migrare è essere cacciati da casa per essere cacciati in ogni dove
Migrare è colonizzare
Migrare è esplorare
Migrare è scommessa
Insomma Migrare è una esperienza totalizzante
Migrare è umano. Nessun popolo è
veramente autoctono, nessun popolo è veramente di un posto e viene sempre da
qualche parte. L’uomo non si è mai arreso alla stanzialità; freme quando è
fermo, se è fermo soffre. Perché “In principio fu il Piede” come scrisse in un
famoso incipit l’antropologo Marvin Harris.
Guardando una mia foto scattata anni
fa ad un mammifero colto dalla morte su di una spiaggia della Patagonia
argentina, fui colpito dalle cavità oculari vuote. Ebbi a pensare – con Cesare
Pavese - “verrà la morte ed avrà i tuoi
occhi”. Ed ho scritto qualcosa sul tema. D'istinto.
MEDITERRANEUM (legge Michele Lattanzio)
Spiaggiati come delfini.
Impazziti dal terrore delle tonnare, scappammo come inseguiti
ma lontana è già la rete sfrangiata che
fu la libertà di un respiro.
Spiaggiati come delfini.
Scappammo come saette d’acqua che si infrangono sull’arena.
Spiaggiati come delfini.
Ma i cadaveri nostri sono più scomposti di quelli dei cetacei:
saranno gli arti a renderci scomposti sulla battigia, quegli arti che fendevano
l’aria e poi sembrano schiacciati dalla gravità; saranno i visi capaci di tanti moti
dell’animo che nessun mammifero è stata capace di eguagliare (vi immaginate un
equino recitare una poesia?); così un cadavere di cetaceo alla fine è più elegante del nostro che si
spiaccica freddo ed immoto e gonfio e scomposto.
Spiaggiati come delfini.
Quanto poco è olimpionica
la morte anche se vince sempre, quanto non è olimpica la morte di Enkidu
che sgomentò un dio come Gilgamesh. Dunque
finirò anche io come Enkidu? Gridò spossato, in ginocchio il dio Gilgamesh con
l’onnipotenza urticante di un bambino.
Quanto è adinamica la morte: ciò che non si muove in natura o
è roccia o è non-vita, il nulla, pura entropia
vorace che tutto spalma nel pool atomico.
Spiaggiati come delfini.
Dalla rete all’arena. Fummo uomini e bambini prima di inalare
vapori chiassosi di diesel, sbattuti nelle stive di navi: fummo uomini che mai
più saremo.
Spiaggiati come delfini. (achille m.)
Ma quanto è
grande il mare (legge Michele Lattanzio)
che ci
separa?
è (grande) quanto la nostra disperazione
è l’insieme
di tutte le lacrime dei nostri figli
ho dubitato di
essere pure il figlio di un Dio minore
i miei occhi
hanno toccato le stigmati della guerra
un grande e
continuo
BUMM BUMM
TATATATAA’ BUMM
a segnare i silenzi.
Ho chiuso
gli occhi
per un
attimo
e ho usato
il verbo dell’ immaginazione.
Ho
desiderato il mare
ho
attraversato il mare
per trovare
qualcosa
che parli
ancora
di vita.
Lascio il
mio paese
levo
l’ancora dei miei desideri
il mio
sorriso è stanco
sento il
peso degli sguardi….
Cos’ è un uomo?
Un’ immagine
riflessa
un’essenza pura
l’anima che pulsa
dentro.
Sono fatto
delle tue stesse mani
le tue
stesse gambe mi accompagnano
posso
leggerti come una poesia
tu sai essere una splendida poesia.
Proprio come
te….
….sono altro.
Eppure ho
bisogno di te
e forse non
lo sai
ma anche tu
hai bisogno di me.
Il sorriso
di un bambino
spacca le
pietre dei cuori contaminati
i bambini sono
incuriositi dalle differenze
non le
condannano
non sono
stati contagiati
dal canto di
ammaliatrici sirene
di demoni
del basso profilo.
Ci sono
grandi poeti
del cammino
verso la humanitas
che del
potere del sogno
sono stati
cultori
bambini
fino alla
morte.
Loro
sono rinati
in due piccole mani strette
dal colore
diverso
sono rinati
dal sorriso
che sa
infondere ancora forza al mondo:
quello di un
bambino. (Nicola DILEO)
IMAGO - Una fotografia (legge Michele Lattanzio)
È da quando sono piccolo che amo il cielo stellato e tutto ciò che rappresenta. Il contrasto tra la luce e le tenebre, le infinità possibilità che offre. Una delle mie sette madri – quella che mi fu sorteggiata dalla Legge in adolescenza – diceva che non avrei potuto camparci di questa passione, ma io fin da subito ho studiato e ho fatto carte false per diventare un fotografo del cosmo. Non posso dimenticare il mio primo servizio sulle comete della Nube di Oort, che mi fu pagato con sole due dracme: il corrispettivo di un ictocorno alla brace innaffiato da sidro. Era il mese nono del duemiladuecentottantatré ed ero contento di poco. Da allora ho ritratto un numero incredibile di corpi celesti del nostro Sistema, le colonie, le navi... e man mano che sono andato avanti, mi sono sempre più appassionato al fronte umano ed ho preferito ritrarre l’universo abitato. Grossi fremiti migratori attraversano il Sistema da circa un secolo. E’ dall’era dell'Homo erectus che non stiamo mai fermi ed occupiamo ogni spazio come gas. La sequenza storica? Gli esploratori, fuggiaschi e criminali, cosmonauti della Flotta, i colonialisti e approfittatori, mercanti della Lega ed infine i profughi; il Fronte centrifugo mira al subsistema marziano, dove sono nato novantotto anni fa. Da quando è scoppiata la Quinta Guerra, i transfughi della Terra sono diventati un soggetto inevitabile per me e per i miei colleghi più sagaci.
Volente o nolente, nella tratta tra la Terra e le colonie,
non trovi altro. Dozzine di queste carcasse datate e malfunzionanti, che ti
chiedi come possano prendere il volo e superare indenni l'atmosfera. Spesso
sono catorci da museo, persino riconvertiti da navi a carburante fossile...
roba che nemmeno i miei nonni avevano visto. Le foto e i filmati che vedete sui
vostri device non rendono l'idea. E
il problema non è solo questo, lo sapete. Tra quelle lamiere, sono stipati
all'inverosimile, nelle peggiori condizioni igieniche, con percentuali di
ossigeno ridotte all'osso, perché i trafficanti di uomini vogliono tanto
risparmiare quanto tenerli buoni. È un miracolo che qualche nave arrivi a
destinazione, e voi avete il coraggio di lamentarvi degli immigrati che ce la
fanno. Gli incidenti sono così inevitabili e normali che ormai noi su Marte non
ci facciamo più caso. Mangiamo mentre ascoltiamo della nave esplosa a contatto
con l'atmosfera, preoccupandoci solo dei detriti che possano caderci in testa,
e ce ne freghiamo ancora di più delle navi fantasma piene di morti asfissiati
che finiscono per schiantarsi nella Fascia degli Asteroidi.
Quello che mi fa ribollire il sangue nelle vene è la
mentalità del Marziano
medio. Nel giro di poche generazioni, sembra che abbiamo dimenticato le nostre
origini.
Per secoli abbiamo pensato che le risorse che potesse
offrirci Gea, Gaia, come preferite chiamarla, fossero risorse infinite. Come
figli ingrati e irresponsabili, abbiamo depredato ciò che continuava a offrirci
la Madre Terra, senza ritegno, senza coscienza che l'avremmo impoverita fino a
ucciderla, fino a renderla inospitale per noi stessi. Ci siamo scannati per
accaparrarci gli ultimi scampoli di terra coltivabile, di acqua, di aria
respirabile. Poi, i più fortunati ed audaci di noi sono fuggiti alla prima
occasione, preferendo adattarsi alle pur difficili condizioni degli altri
pianeti, pur di abbandonare il nido ormai avvelenato. Marziani, Venusiani,
Titani... che cosa siamo, se non il parto di ex profughi?
Eppure, al giorno d'oggi, i Terrestri, coloro che non hanno voluto o potuto lasciare Gea, sono visti come numeri, al più seccature, problemi... immigrati, appunto. Io li vedo gli sguardi degli altri Marziani quando un clandestino, o anche un rifugiato politico, passeggia per le nostre città, stordito dall'ambiente diverso e dalla povertà. Hanno paura delle malattie, o della loro forza superiore nelle prime settimane dall'atterraggio di fortuna, prima che la denutrizione e la gravità li consumino. Ci meravigliamo, poi, che i più disturbati cadano preda della follia e del fanatismo, e arrivino ad assaltare le nostre navi, a sabotare i nostri sistemi di terraformazione. Queste distinzioni tra Terrestri e Marziani, tra Terrestri e Coloni in generale, non hanno senso. Lo sappiamo, ma fingiamo che non sia così. Il pianeta rosso ci avrà resi diversi nel corso dei decenni, ma siamo tutti umani. Anzi, siamo tutti terrestri, anche se siamo nati su Marte o su un altro corpo celeste. E invece tutti sembrano voler rimuovere questa realtà.
Eppure, al giorno d'oggi, i Terrestri, coloro che non hanno voluto o potuto lasciare Gea, sono visti come numeri, al più seccature, problemi... immigrati, appunto. Io li vedo gli sguardi degli altri Marziani quando un clandestino, o anche un rifugiato politico, passeggia per le nostre città, stordito dall'ambiente diverso e dalla povertà. Hanno paura delle malattie, o della loro forza superiore nelle prime settimane dall'atterraggio di fortuna, prima che la denutrizione e la gravità li consumino. Ci meravigliamo, poi, che i più disturbati cadano preda della follia e del fanatismo, e arrivino ad assaltare le nostre navi, a sabotare i nostri sistemi di terraformazione. Queste distinzioni tra Terrestri e Marziani, tra Terrestri e Coloni in generale, non hanno senso. Lo sappiamo, ma fingiamo che non sia così. Il pianeta rosso ci avrà resi diversi nel corso dei decenni, ma siamo tutti umani. Anzi, siamo tutti terrestri, anche se siamo nati su Marte o su un altro corpo celeste. E invece tutti sembrano voler rimuovere questa realtà.
Perlomeno, fino a quella foto. È ridondante che vi dica che
mi viene la pelle d'oca a ripensarci, ogni singola volta. Rimasi scioccato già
quando vidi esplodere un compartimento della Yinghuo-21 sotto i miei occhi.
Non so cosa mi abbia spinto a fare quella foto di Petra Capaldi. Mentre scattavo, ero in uno stato... non saprei, ero inebetito, come spinto dal pilota automatico del cervello. Per questo non mi prendo meriti, se mai ce ne fossero. Non mi rendevo conto che stavo immortalando il... corpo di una bambina che fluttuava nel vuoto siderale. Solo dopo, ho guardato lo scatto, ho rialzato la testa, l'ho rivista con questi stessi occhi e mi sono... mi sono messo a piangere. Era lì, a cento metri da me. Soffocata a morte, gonfia... Non smetto di pensarci, di sognarla. Non smetto di chiedermi cosa avrei potuto fare per salvare lei, la sua famiglia o tutti gli altri trecentocinquantaquattro morti. Cercavano solo di fuggire da un incubo.
Non so cosa mi abbia spinto a fare quella foto di Petra Capaldi. Mentre scattavo, ero in uno stato... non saprei, ero inebetito, come spinto dal pilota automatico del cervello. Per questo non mi prendo meriti, se mai ce ne fossero. Non mi rendevo conto che stavo immortalando il... corpo di una bambina che fluttuava nel vuoto siderale. Solo dopo, ho guardato lo scatto, ho rialzato la testa, l'ho rivista con questi stessi occhi e mi sono... mi sono messo a piangere. Era lì, a cento metri da me. Soffocata a morte, gonfia... Non smetto di pensarci, di sognarla. Non smetto di chiedermi cosa avrei potuto fare per salvare lei, la sua famiglia o tutti gli altri trecentocinquantaquattro morti. Cercavano solo di fuggire da un incubo.
Non solo nessuno si preoccupa di chi fugge, ma nessuno si
preoccupa nemmeno di ciò da cui scappano.
Miliardi di persone sulla Terra stanno soffrendo in maniera
indicibile per una guerra senza senso, muoiono sotto le bombe, sono avvelenate
dalle radiazioni, dall'inquinamento che i nostri avi si sono lasciati alle
spalle... ma tanto, che c'importa? Siamo a due unità astronomiche di distanza.
Non ci tocca. Siamo al sicuro, sotto le nostre cupole, qui, nei nostri
avamposti puliti, asettici, artificiali.
Per questo ho deciso di smettere di fotografare, dopo Petra.
Non sopporto più l'idea di star lì a documentare, senza fare nulla per
intervenire. Non posso stare con le mani, non posso più stare zitto. Finalmente
qualche coscienza si è smossa, così dicono. Se sarà servita a far intervenire
il nostro Governo, a varare un piano umanitario, a mandare aiuti sulla Terra
per bloccare il male all'origine di tutto questo... sarà valsa la pena tutto
quello che ho fatto da quando sono nato fino a tre giorni fa. Fermo restando
che non mi faccio una ragione che ci volesse la foto di una bambina morta per
far aprire gli occhi agli altri Marziani e far ricordare che siamo tutti umani.
Anche quelli senza cuore. ( monologo di Michele Miglionico)
C’era una volta un vecchio che si chiamava Mediterraneo e viveva in un paesino africano affacciato proprio sul mar Mediterraneo. Faceva il cantastorie e spesso si sedeva sulla spiaggia e lì traeva l’ispirazione per raccontare storie di uomini coraggiosi del passato che avevano attraversato quel mare per scoprire nuovi mondi e nuove civiltà. Egli aveva un rapporto così profondo con il mare che gli sembrava di essere il suo interprete personale, tanto da darsi una spiegazione per ogni cosa che accadeva. Quando il mare è in burrasca, diceva, significa che è in collera con gli uomini che non lo rispettano, inquinandolo. Quando è sereno, invece, sembra che sorrida e lo si vede felice.
I bambini ascoltavano rapiti le storie del vecchio. Erano bambini poveri. Le loro famiglie vivevano alla giornata lavorando duramente e sperando che il giorno che seguiva fosse meno duro di quello precedente .
Un giorno con il cielo grigio scuro, freddo e gelido, con il mare in burrasca in collera con gli uomini, arrivò in tutta la nazione un mostro che si nutriva di egoismo avidità e malvagità, avendo negli occhi la voglia di sfruttamento. In cambio, il mostro lasciava una miseria così nera che in alcuni paesi, per un misero pezzo di pane si uccideva. Alcuni si sottomettevano ai più ricchi e nello stesso tempo li odiavano. Crebbe in molti, con il dolore della misera, l’invidia per chi possedeva qualcosa. Allora, si rubava e si distruggeva non solo per mangiare, ma anche per odio, mentre i ricchi e i loro sottomessi si arricchivano sempre più alle spalle dei poveri che si uccidevano per vivere o che scappavano in cerca di fortuna.
Il vecchio girava per le strade, quasi deserte, vedendo con tristezza tantissima gente in fuga. I grandi partivano e i bambini li seguivano e si affidavano al mare. Partivano con la speranza che il mar Mediterraneo, l’amico mare, con la sua magia portasse intere famiglie verso altri luoghi più sicuri, verso una dignità.
La folla si addensava sulla spiaggia e venne spinta su un vecchio barcone insicuro e sgangherato che scricchiolava paurosamente. A bordo si stava gli uni accanto agli altri, in piedi, perché non c’era spazio.
Il mare però era tranquillo, sulla nave c’erano molti uomini e molte donne e c’erano anche due o tre capi che davano ordini e picchiavano con durezza chi si lamentava. Nella barca non c’era cibo nè acqua,alcuni bambini piangevano e i grandi iniziarono a lamentarsi. I capi li minacciarono di buttarli in acqua. Allora il mare incominciò ad arrabbiarsi. Si alzò il vento e la nave prese a oscillare sbattuta dalla furia delle onde. I bambini, terrorizzati, si chiedevano perché il Mar Mediterraneo fosse tanto in collera.
LA SPERANZA DEL MAR MEDITERRANEO (legge Michele Lattanzio)
C’era una volta un vecchio che si chiamava Mediterraneo e viveva in un paesino africano affacciato proprio sul mar Mediterraneo. Faceva il cantastorie e spesso si sedeva sulla spiaggia e lì traeva l’ispirazione per raccontare storie di uomini coraggiosi del passato che avevano attraversato quel mare per scoprire nuovi mondi e nuove civiltà. Egli aveva un rapporto così profondo con il mare che gli sembrava di essere il suo interprete personale, tanto da darsi una spiegazione per ogni cosa che accadeva. Quando il mare è in burrasca, diceva, significa che è in collera con gli uomini che non lo rispettano, inquinandolo. Quando è sereno, invece, sembra che sorrida e lo si vede felice.
I bambini ascoltavano rapiti le storie del vecchio. Erano bambini poveri. Le loro famiglie vivevano alla giornata lavorando duramente e sperando che il giorno che seguiva fosse meno duro di quello precedente .
Un giorno con il cielo grigio scuro, freddo e gelido, con il mare in burrasca in collera con gli uomini, arrivò in tutta la nazione un mostro che si nutriva di egoismo avidità e malvagità, avendo negli occhi la voglia di sfruttamento. In cambio, il mostro lasciava una miseria così nera che in alcuni paesi, per un misero pezzo di pane si uccideva. Alcuni si sottomettevano ai più ricchi e nello stesso tempo li odiavano. Crebbe in molti, con il dolore della misera, l’invidia per chi possedeva qualcosa. Allora, si rubava e si distruggeva non solo per mangiare, ma anche per odio, mentre i ricchi e i loro sottomessi si arricchivano sempre più alle spalle dei poveri che si uccidevano per vivere o che scappavano in cerca di fortuna.
Il vecchio girava per le strade, quasi deserte, vedendo con tristezza tantissima gente in fuga. I grandi partivano e i bambini li seguivano e si affidavano al mare. Partivano con la speranza che il mar Mediterraneo, l’amico mare, con la sua magia portasse intere famiglie verso altri luoghi più sicuri, verso una dignità.
La folla si addensava sulla spiaggia e venne spinta su un vecchio barcone insicuro e sgangherato che scricchiolava paurosamente. A bordo si stava gli uni accanto agli altri, in piedi, perché non c’era spazio.
Il mare però era tranquillo, sulla nave c’erano molti uomini e molte donne e c’erano anche due o tre capi che davano ordini e picchiavano con durezza chi si lamentava. Nella barca non c’era cibo nè acqua,alcuni bambini piangevano e i grandi iniziarono a lamentarsi. I capi li minacciarono di buttarli in acqua. Allora il mare incominciò ad arrabbiarsi. Si alzò il vento e la nave prese a oscillare sbattuta dalla furia delle onde. I bambini, terrorizzati, si chiedevano perché il Mar Mediterraneo fosse tanto in collera.
- Mare, mare – dicevano fra le lacrime - noi bambini
ti vogliamo bene, non essere in collera con noi.
Ma il mare non si calmò. I capi, per alleggerire la barca, buttarono violentemente in acqua alcuni uomini senza salvagente e senza che sapessero nuotare. Inutilmente i bambini chiesero al loro amico mare di salvare quegli uomini che vedevano dibattersi tra le onde gridando, finchè non scomparvero nei flutti. La barca scricchiolava sempre di più e sempre più minacciosamente e tutti temevano che dovesse spaccarsi da un momento all’altro, quando da lontano arrivò una nave, una vera nave bianca, grande e forte. Su di essa c’erano degli uomini vestiti di bianco e di azzurro che ai bambini apparvero come tanti angeli, quegli angeli di cui il vecchio Mediterraneo aveva narrato le storie più belle. In quel momento, la luna vinse il nero delle nuvole e i bambini videro sventolare, sull’albero più alto della nave, una bandiera tricolore.
- Siamo salvi! Siamo salvi! - esclamò un bambino e tutti esultarono felici.
L’amico sole iniziò a sorgere, l’ amico mare era tornato sereno, c’era l’ amico vento che soffiava leggero. Era il vento della speranza e della gioia. I gabbiani volavano felici e i delfini, in lontananza, saltavano allegramente. Viaggiavano ormai tutti sani e salvi, felici e al sicuro verso una Nazione accogliente, lontani dalla guerra e dalla miseria. Alla luce del sole, i bambini notarono che I colori della bandiera che sventolava sul più alto pennone della nave erano il bianco, il rosso e il verde.
I bambini erano felici, ma nel loro cuore aleggiava la tristezza per aver lasciato la loro terra e soprattutto per aver lasciato il vecchio Mediterraneo con i suoi racconti magici e misteriosi. La folla di profughi scesa dalla barca spingeva per inoltrarsi nella nuova terra e i bambini si sentivano trasportati quasi di forza.
- Ma dove siamo? – chiese qualcuno
- Siete in Italia, a Lampedusa – rispose una voce.
Il cielo era ormai terso e luminoso e laggiù videro venire incontro a loro tanti altri bambini, quelli che abitavano lì e sicuramente erano più fortunati di quelli che avevano lasciato la loro casa. Ma c’era qualcosa... c’era qualcuno... Oh, meraviglia! chi
camminava in mezzo a quei bambini italiani? Ma sì, era
proprio lui, Mediterraneo, il vecchio caro Mediterraneo che anche lui, chissà quando e chissà con quale mezzo, forse con la sua vecchia barca o forse chissà, volando con il vento, era giunto su quella terra ospitale e ora veniva incontro ai nuovi arrivati. Allora, insieme a tutti quei bambini, il mare esultò di gioia ed i bambini italiani si misero a dipingere dei sassi colorati che regalavano ai bambini appena arrivati, c’ era pane e dolci e pasta per tutti, bambini e grandi. Gli abitanti di quell’isola meravigliosa su cui erano arrivati con tanta fatica e paura accolsero con amicizia i nuovi venuti e insieme, tutti insieme in un grande cerchio intonarono filastrocche e canti di pace, amore e fratellanza. Voltando lo sguardo indietro, i bambini videro le onde scintillare, come se recitassero una filastrocca che sembrava voler dire:
Ma il mare non si calmò. I capi, per alleggerire la barca, buttarono violentemente in acqua alcuni uomini senza salvagente e senza che sapessero nuotare. Inutilmente i bambini chiesero al loro amico mare di salvare quegli uomini che vedevano dibattersi tra le onde gridando, finchè non scomparvero nei flutti. La barca scricchiolava sempre di più e sempre più minacciosamente e tutti temevano che dovesse spaccarsi da un momento all’altro, quando da lontano arrivò una nave, una vera nave bianca, grande e forte. Su di essa c’erano degli uomini vestiti di bianco e di azzurro che ai bambini apparvero come tanti angeli, quegli angeli di cui il vecchio Mediterraneo aveva narrato le storie più belle. In quel momento, la luna vinse il nero delle nuvole e i bambini videro sventolare, sull’albero più alto della nave, una bandiera tricolore.
- Siamo salvi! Siamo salvi! - esclamò un bambino e tutti esultarono felici.
L’amico sole iniziò a sorgere, l’ amico mare era tornato sereno, c’era l’ amico vento che soffiava leggero. Era il vento della speranza e della gioia. I gabbiani volavano felici e i delfini, in lontananza, saltavano allegramente. Viaggiavano ormai tutti sani e salvi, felici e al sicuro verso una Nazione accogliente, lontani dalla guerra e dalla miseria. Alla luce del sole, i bambini notarono che I colori della bandiera che sventolava sul più alto pennone della nave erano il bianco, il rosso e il verde.
I bambini erano felici, ma nel loro cuore aleggiava la tristezza per aver lasciato la loro terra e soprattutto per aver lasciato il vecchio Mediterraneo con i suoi racconti magici e misteriosi. La folla di profughi scesa dalla barca spingeva per inoltrarsi nella nuova terra e i bambini si sentivano trasportati quasi di forza.
- Ma dove siamo? – chiese qualcuno
- Siete in Italia, a Lampedusa – rispose una voce.
Il cielo era ormai terso e luminoso e laggiù videro venire incontro a loro tanti altri bambini, quelli che abitavano lì e sicuramente erano più fortunati di quelli che avevano lasciato la loro casa. Ma c’era qualcosa... c’era qualcuno... Oh, meraviglia! chi
camminava in mezzo a quei bambini italiani? Ma sì, era
proprio lui, Mediterraneo, il vecchio caro Mediterraneo che anche lui, chissà quando e chissà con quale mezzo, forse con la sua vecchia barca o forse chissà, volando con il vento, era giunto su quella terra ospitale e ora veniva incontro ai nuovi arrivati. Allora, insieme a tutti quei bambini, il mare esultò di gioia ed i bambini italiani si misero a dipingere dei sassi colorati che regalavano ai bambini appena arrivati, c’ era pane e dolci e pasta per tutti, bambini e grandi. Gli abitanti di quell’isola meravigliosa su cui erano arrivati con tanta fatica e paura accolsero con amicizia i nuovi venuti e insieme, tutti insieme in un grande cerchio intonarono filastrocche e canti di pace, amore e fratellanza. Voltando lo sguardo indietro, i bambini videro le onde scintillare, come se recitassero una filastrocca che sembrava voler dire:
Ciao mi presento sono l’immenso mare
Perché non mi vieni ad ascoltare?
Io so cantare e far sognare
I marinai possono navigare.
La mia acqua è salata e tu puoi nuotare. Se vuoi riflettere sulla mia riva lo puoi fare e con serenità puoi pensare.
Molta gente per vivere e prosperare
le mie acque deve attraversare
Il pescatore tanti pesci può pescare
Il delfino sulle mie onde può saltare
I bambini con me possono scherzare
Ma c’ è una cosa da imparare
Se vuoi che tutti i bimbi possano giocare con me, non mi devi inquinare. Evviva evviva impariamo ad amare
e rispettare l’ amico mare. (Davide Giustino)
Il racconto di Davide Giustino si è classificato al secondo posto del Premio Letterario
Nazionale "Porta D' Oriente Cultura e Libero Sviluppo del Mediterraneo "
Durante la manifestazione dell ' 11 Dicembre 2015, presso il Teatro
Petruzzelli. Tutte le opere sono riprodotte con il consenso degli AA.
Io so cantare e far sognare
I marinai possono navigare.
La mia acqua è salata e tu puoi nuotare. Se vuoi riflettere sulla mia riva lo puoi fare e con serenità puoi pensare.
Molta gente per vivere e prosperare
le mie acque deve attraversare
Il pescatore tanti pesci può pescare
Il delfino sulle mie onde può saltare
I bambini con me possono scherzare
Ma c’ è una cosa da imparare
Se vuoi che tutti i bimbi possano giocare con me, non mi devi inquinare. Evviva evviva impariamo ad amare
e rispettare l’ amico mare. (Davide Giustino)
Il racconto di Davide Giustino si è classificato al secondo posto del Premio Letterario
Nazionale "Porta D' Oriente Cultura e Libero Sviluppo del Mediterraneo "
Durante la manifestazione dell ' 11 Dicembre 2015, presso il Teatro
Petruzzelli. Tutte le opere sono riprodotte con il consenso degli AA.
Ha accompagnato le letture il chitarrista Marco Corcella.
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