(Generazioni Parallele, foto am) |
Le generazioni oggi appaiono più "parallele" e cittadine di mondi "paralleli" piuttosto che in sequenza ed i ruoli storici, sociali e psicologici (genitori, coniugi, figli, lavoratori, insegnanti ecc. ) risultano quanto mai incerti ingenerando conflitti sconosciuti che vogliono trascenderci al di là della voglia e l'intenzione di comunicare, al di là delle esperienze passate. D'altronde viviamo un mondo a vissuto "globalizzato" ove il "privato" corre verso il "de-privato". Si comunica tanto ma in solitudine.
E' questo l'attrattore dell'opera ben fatta e ottimamente recitata dagli attori de "I nostri ragazzi"? Non lo so ma tutti i protagonisti mi sono sembrati soli in compagnia. L' Allein- stehen (l'essere-in-solitudine, diverso da essere-solo, in intimità con me stesso) si espande nella agorà del social network e nell' apeiron del web. E non ci si intende con il vicino.
Si è aperta ieri la rassegna di film con incontri aperti organizzata dal SIEB con il Circolo Dino Risi di Trani. E' stata proiettata la pellicola di Ivano de Matteo "I nostri ragazzi", pellicola in cui i sistemi familiari vedono interrotta la propria routine (né vincente né perdente per dirla con il copione berniano) da un subitaneo crimine commesso da due figli. I genitori sanno, gli Altri non ancora. Gli autori del crimine vanno difesi? vanno consegnati alla Giustizia? qui si intrecciano vissuti attuali di "pietas" ed "humanitas", di etica e morale in una società fatta di mediatico che confonde il senso di privato/pubblico (alla Pareto). Una volta si diceva che ciò che non appare in televisione non esiste: qui il crimine è trasmesso in tv ed il "processo" è attivato in tv da una nota trasmissione che si occupa di cronaca nera (in luogo del "pubblico"?) ma scatena da una parte vissuti di rabbia e impotenza di una generazione di genitori (incline più a perdonare che seguire i propri figli) dall'altra vissuti di rabbia e vuoto esistenziale di una generazione di figli "digital natives" (pronti a chiedere più che a dare). Rifondare valori ed ideali-guida ma come? Parliamone in diretta tra persone "fisiche", toccandoci nel mondo reale e non avendo paura di trasmettere emozioni di incertezza. Il film è un tagliente punto interrogativo che cala nella mente dello spettatore confondendolo per i troppi temi sollevati. Ma - come è emerso nel corso del dibattito tra pubblico e didatti del SIEB - il "troppo" impera nel quotidiano del cittadino schiacciato da tanti "ruoli" sociali e psicologici non più in armonia. E le "vecchie" tematiche di sapore "edipico" dei genitori sembrano annegare nelle tematiche "marginali" dei figli. Anzi il complesso di Caino dei fratelli, prima bisbigliato e tollerato, si traduce - attraverso le vicende dei figli - drammaticamente nel qui-ed-ora, come in un fumetto cui sono concesse assurdità. Solo lontanamente si rievoca la atmosfera "teatrale" di Carnage (2011) il film di Roman Polansky ove i genitori finiscono con azzuffarsi invece che riflettere sui propri figli. Emerge la incomprensione distaccata e totale tra generazioni, due mondi paralleli con diversi codici di comunicazione. Riflettiamo.
Non ci sono risposte definitive ma va recuperata al più presto la collaborazione tra gli agenti della agenzia educativa: ripristinare quella alleanza didatticopedagogica tra genitori e corpo docente che oggi sembra solo un ricordo, facendoci sentire tutti soli nella moltitudine.
Un grazie a tutti i partecipanti all'incontro. Alla prossima. (achille miglionico)
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Se il cinema è lo specchio della realtà, questo film rivela tutte le crepe di uno specchio in frantumi, e sfiorandolo appena, i mille frammenti ci feriscono senza lasciare scampo. Una realtà infranta da un benessere di pochi e per pochi, paradossalmente anacronistica, di una società senza padri e senza maestri, di ragazzi figli di un unico dio che sprigiona i suoi infiniti volti attraverso la rete. Con l'uomo nasce la sua sete di riconoscimento, di cura, ed il web attraverso i suoi svariati mezzi, soddisfa in pieno tale bisogno primario, in un click, sempre. E c'è da chiedersi se siano stati prima i genitori a sentirsi sollevati dall'impegno amorevole di esserci, o se d'un tratto si siano sentiti rimpiazzati da un così grande dio, pronto a rispondere prima di loro. Ivano De Matteo, ispirandosi liberamente al romanzo di Erman Koch "La cena", a due anni di distanza da " Gli equilibristi", col suo film presentato a Venezia nella sezione Giornate degli Autori, pone il suo sguardo ancora una volta su uno spaccato di vita borghese, dove le esistenze di due fratelli dai caratteri e dalle vite diametralmente opposti scorrono in parallelo incrociandosi solo una volta al mese in un ristorante di lusso per parlare di nulla e dove emergono evidenti ipocrisie, pregiudizi e falsi moralismi della coppia interpretata da Luigi Lo Cascio, chirurgo pediatrico, e Giovanna Mezzogiorno, madre fragile ma attenta, che si pone in contrasto col mondo sterile e patinato di Alessandro Gassmann, avvocato di grido, e di sua moglie Barbara Babulova, bella, sofisticata, intellettualmente vuota, ma devota. Quando le telecamere di sorveglianza riprendono una scena che vede i rispettivi figli protagonisti di un crimine, vengono giù le maschere e lo spettatore, che poco prima aveva attribuito i ruoli del buono e del cattivo, si vede costretto a ribaltare le sue posizioni. Michele, taciturno ed introverso, interpretato dal giovanissimo Jacopo Olmo Antinori, e Benedetta, a cui presta il volto Rosabell Laurenti Sellers, hanno i loro nomi ma sono i nostri ragazzi, figli di un tempo in cui il tempo non ha più valore, dove il silenzio, la solitudine e l'attesa hanno assunto un significato diverso rispetto al tempo in cui l'attesa veniva prima di una presenza, il silenzio lasciava spazio alla conferma e alla riflessione sui valori trasmessi, la solitudine consentiva di fermarsi. Lo sguardo di De Matteo è lucido e nitido ed attraverso i protagonisti, ognuno eccellente nel proprio ruolo, ci regala una pellicola per certi versi imperfetta per la povertà dei dialoghi, ma che a ben vedere si riempie di senso se tale povertà si legge come lo spazio lasciato ad ognuno per ascoltare la voce della propria coscienza. Prima dei titoli di coda, ad una voragine di troppe domande senza risposta, l'epilogo aggiunge un drammatico senso di vuoto dettato dall'assoluta assenza di amore. (Antonietta D'Ambrosio)
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