"Aveva i capelli castani, riccioluti e leggeri, gli occhi color nocciola
(come quelli di certi cani barboni); camminava alquanto dinoccolato, con la
grazia della adolescenza che si crede sgraziata, e si teme ridicola."
Così come Ernesto prende vita attraverso il morbido tratto della penna di
Umberto Saba, Sebastiano Riso nella sua opera prima, con la stessa
delicatezza pone lo sguardo su Davide. I suoi capelli hanno il rosso del
sole che sta per spegnersi, ed il bianco della pelle gli donano una bellezza
efebica che si pone in contrasto col buio della sua soffitta dove, al riparo
da tutto, è libero di cantare ed esprimersi in un mondo che gli somiglia.
Ma per suo padre quella soffitta è la conferma di una malattia che va
curata con siringhe di virilità e con la violenza capace di correggere una
natura sbagliata. La violenza di suo padre si scaglia nella distruzione di
quel mondo che Davide stava definendo piano ed in cui si riconosceva, e non
bastano i baci amorevoli di sua madre sui segni di tale violenza a
proteggerlo e trattenerlo. Davide scappa lontano da lui, in una Catania
immersa nel buio, alla ricerca di anime simili che troverà a Villa Bellini,
un grande parco popolato da occhi tristi quanto i suoi. In una Catania degli
anni ottanta Davide e i suoi amici trovano posto solo di notte, perchè di
giorno una società ipocrita finge di non vedere, di non sentire il
disperato grido di dolore che nasce dal bisogno di uscire dagli schemi di
omologazione per poter definire liberamente il percorso che conduce a
riconoscere ed affermare un'identità sessuale. Sorretti dalle semplici note
di "Amore stella" sono uniti nelle loro solitudini, nella necessità di una
protezione che abbia un colore diverso dal bianco, il colore dell'abito del
padre di Davide terribilmente uguale a quello del saccente e cinico
sfruttatore delle loro giovinezze. E' una pellicola non perfetta per quel
che riguarda la collocazione temporale ed anche povera nei dialoghi, ma ci regala
un forte chiaroscuro grazie anche all'interpretazione del giovane Davide
Capone e Micaela Ramazzotti nel ruolo della madre di Davide da un lato, e
dall'altro l'ostile Vincenzo Amato, nel ruolo del padre che anche
nell'ultima scena, con l'abito bianco macchiato dal sangue di Davide, si
preoccupa ancora del giudizio della gente. Una verità che sembra quasi ci
possa scorrere di fianco, e che la società chiede di non vedere, fa sentire
colpevoli. Ci si sente smarriti quando, poi, le luci del cinema si accendono
e ad aver vissuto la tristezza ed il forte senso di impotenza eravamo solo
in tre, tutti gli assenti non hanno sentito, non hanno visto. (Antonietta D'Ambrosio)
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