Strappare lungo i bordi … è impossibile
Recensione della serie tv Netflix "Strappare lungo i bordi" animata e diretta dal fumettista Zerocalcare.
Strappare lungo i bordi è la
serie animata scritta e diretta dal fumettista Zerocalcare sbarcata su Netflix
il 17 novembre. ”Strappare lungo i bordi” è la metafora che pervade tutta la
narrazione, tutta la vita di Zero (protagonista della serie e alter ego
dell’autore) e dei suoi amici e che poi si scopre essere l’ansia comune a tutta
una generazione. “Strappare lungo i bordi” è ciò che è stato insegnato a ogni
Millennial, solo per scoprire che strappare lungo i bordi è impossibile.
Ma cosa significa
strappare lungo i bordi? È la promessa che è stata fatta a ogni Millennial, è
quello che Zero pensa da sempre, è seguire tutti i passi “giusti” nella vita,
come una linea tratteggiata appunto, per arrivare ad avere un lavoro, una casa,
una famiglia: una promessa di felicità irrealizzabile. I Millennials sono
l’ultima generazione nata ed educata in un contesto prettamente novecentesco
esattamente quando il Novecento è finito. La precarietà del lavoro,
l’instabilità delle relazioni, il mondo che è cambiato più e più volte hanno
reso impossibile seguire la strada indicata, quella “giusta”. La perenne
incertezza lavorativa e sentimentale diviene precarietà esistenziale proprio in
virtù di quella premessa/promessa pedagogica inconsciamente e gentilmente
inoculata in Zero come in tutta la sua generazione; una generazione partita con
una dotazione “sbagliata” già in partenza. Si pensi ancora alla metafora, che è
sviluppata a più riprese lungo la serie. È una metafora cartacea: niente di più
“antico”. È sintomo di una vita che è nata con la carta (e non facciamo
riferimento solo all’immediata connessione autobiografica con il lavoro di
fumettista di Zerocalcare), tanto da dipingere, nell’ultima puntata, ogni vita
come un pezzo di carta, che da lontano appare perfetto, cioè tagliato “lungo i
bordi”, ma che poi, visto da vicino, è colmo di tutte le incertezze e le
fragilità.
L’ansia di
strappare lungo i bordi è talmente alta e operante nella vita di Zero che, per
un periodo della sua vita, ha pensato bene di non fare nulla, coltivando
l’illusione di non arrecare danni, di lasciare intonso il pezzo di carta. Solo
per scoprire, però, che se il pezzo di carta resta in mano si accartoccia, si
guasta, si riempie di sudore e si sgualcisce ugualmente. È così che poi Zero si
accorge che, dopo dieci anni di pia illusione, la ragazzina che lui seguiva per
le ripetizioni private è ormai laureata e lavora, mentre lui non ha realizzato
nulla nel frattempo, così la frustrazione di sentirsi inutile e incapace si
mischia col sentirsi vecchio, altro male di questa generazione.
Insomma, un
campione vero della strategia evitante o, come meglio riassunto dall’Armadillo
che è la sua coscienza, una “cintura nera a scansare la vita”.
In questa
ipermoderna Coscienza di Zero, l’evitamento va sempre a braccetto
col dialogo interiore, reso attraverso questo continuo confronto tra Zero e il
suo Armadillo, cioè la sua coscienza: cinica, svalutante, oppressiva. Anche se
la resa dialogica e la brillantezza delle battute lo rende un personaggio
divertente e spassoso («io ti raggiungo col coso... col cazzo») il contenuto
verbale è pesante e lo inchioda spesso, come quando, nel bagno di un treno,
armato di penna e taccuino, gli chiede se perlomeno è consapevole del perché stia
pensando solo al freddo creato nello scompartimento dall’aria condizionata
troppo alta: “per non pensare” ammette infine Zero, mentre l’Armadillo annota e
sentenzia “Il soggetto è cosciente”, per poi sparire, sigillando la condanna
col silenzio e l’assenza.
Zero è quindi un
personaggio bloccato, soffocato dalle ansie, dai mille ragionamenti che non
portano mai all’azione tanto che deve essere rassicurato due volte, in due
momenti molto lontani tra loro, da un’immagine dall’effetto distensivo
propostagli dall’amica Sarah: siamo come fili d’erba, il mondo non gira intorno
a te. I personaggi con cui Zero interagisce di più propongono infatti modelli
di vita possibili. La visione distensiva di Sarah, che abbraccia la
molteplicità e la complessità della vita e degli esseri umani, proponendo di
vivere in questa inconoscibilità del tutto e delle ragioni profonde, certa
della parzialità di ogni punto di vista, di ogni conoscenza, e di una gaddiana
inconoscibilità delle relazioni di causa-effetto. È una visione che non propone
però di arrendersi di fronte a questa consapevolezza ma di vivere con questa consapevolezza, che può solo
donare leggerezza; dall’altra parte c’è la visione menefreghista di Secco, che
si guadagna da vivere giocando a poker online, non fa piani per il futuro,
mostra totale disinteresse alle pressioni altrui e vive ai limiti dell’apatia
proponendo ogni due per tre di andare a prendere il gelato. Infine c’è Alice,
che vive tutta la sua vita coltivando un sogno: diventare insegnante. Vive
preparandosi a quel sogno, impartisce ripetizioni private non per guadagnare
qualcosina (come farà Zero emulandola) ma credendo fermamente nel valore
pedagogico della sua azione. Un sogno che è però infranto dalla precarietà del
mondo del lavoro, tanto da essere costretta prima a lasciare Roma per tornare a
casa dei genitori a Biella, obbligata dunque- per l’impossibilità economica di
autosostenersi- a vivere una frustrante regressione nel nido familiare e poi ad
accettare lavoretti part time in cui “porta i caffè a gente che non sa nemmeno
il suo nome”. Privata della sua realizzazione personale ed economica nel lavoro
e nelle relazioni amorose, Alice non può che spegnersi pian piano fino a
giungere all’estrema decisione: suicidarsi. Si conclude proprio così la serie,
con i tre amici che raggiungono Biella per assistere alla celebrazione del
funerale di Alice, che si svolge in una palestra di pugilato, lo sport che
l’aveva sostenuta in quei tempi bui e che, come diceva a fronte della scarsa
convinzione del padre per la scelta di uno sport violento, “la vita ti dà
comunque cazzotti in faccia, tanto vale imparare a incassarli e a darli
indietro”, mostrando così- come sottolineato dal discorso funebre dei suoi
genitori- la rinuncia ad autoidentificarsi solo e soltanto come vittima.
Le figure
genitoriali (quelle di Zero e quelle di Alice) aleggiano sulla vita del protagonista
come modelli di vita impossibili, anche se mai rifiutate del tutto: sono pur
sempre i fautori dello “strappare lungo i bordi” e perciò sono viste come fonte
di “accollo” (il sostantivo romanesco che indica fastidiosa pesantezza: una
persona che si accolla è una persona che reclama sempre la tua presenza e
responsabilità ed è quindi vissuta come un peso e un fastidio), ma sempre
presenti per le emergenze, perché -quasi meravigliosamente- capaci di sbrigare
le cose della vita, di gestirla. La madre di Zero, caricaturalmente associata
al dittatore jugoslavo Tito, è infatti capace di cambiare la ruota della
macchina, di tenere ordinata e pulita la sua casa che, come sostiene la
matriarca, è il biglietto da visita (nonché cartina al tornasole, ci vien da dire)
della gestione della propria vita. Zero, infatti, racconta di come sia per lui
impossibile mantenere il controllo sulla sua casa, trasfigurata come in Game of Thrones, in una costellazione di
regni in lotta tra di loro per giungere al dominio dell’ambìto “Divano di
spade”, il vero fulcro della casa e della vita di Zero. Il divano, vera
ossessione generazionale, in cui si svolge la maggior parte della vita
domestica, perché qui si può fare di tutto: mangiare, dormire, pensare,
parlare, “appoggiare” oggetti e lavorare. Gli oggetti che riempiono lo casa
creando disordine, nella filosofia domestica di Zero, trovano il loro naturale
posto sul divano quando non appartengono a nessuna categoria definita: ma
buttarli è impossibile dice, il Corona virus ci ha insegnato che tutto può
servire (battuta umoristica che sottolinea come la pandemia abbia aggiunto
un’ulteriore incertezza nel sistema di
vita). Per tenere pulito, infine ammette, bisogna combattere giorno per giorno
e il compito è impossibile (risulta possibile solo ai genitori) perché sarebbe
un “accollo”. La paura dell’accollo è una costante che è poi la paura delle
responsabilità (esito di un non sentirsi capaci o all’altezza), è la paura di
vivere la vita con volontà e pienezza, per rifugiarsi in una piatta ma sicura
zona grigia della vita, un placido vivere a metà che ben si comprende
attraverso la relazione tra Zero e Alice. Solo al termine della serie, quando
Alice non c’è più, Zero scopre dai suoi amici che lei ha mostrato a più riprese
interesse nei suoi confronti ma Zero, troppo impegnato a evitare accolli e a
schivare la vita, non l’ha mai notato; in particolare, non le ha risposto a un
messaggio che, come scoprirà da Secco che ha raccolto poi lo sfogo di Alice, è
una richiesta di attenzione dopo la fine di una relazione: l'ennesima relazione
tossica in cui si era imbattuta e che era perfino degenerata nella violenza
fisica. Il protagonista entra dunque nel suo solito imbuto di autoaccuse e
sensi di colpa (anche e soprattutto perché si sente responsabile della vita di
Alice) ma è interrotto dall’immagine salvifica proposta da Sarah, che assume qui anche
la sfumatura dell’autodeterminazione e del libero arbitrio di ogni individuo.
Quel libero arbitrio che, nella prima puntata, è vissuto da Zero come una condanna,
per esempio quando deve scegliere una serie su Netflix ma, imbottigliato nel
paradosso della scelta e nella sistematica posposizione di film belli in un
futuro ipotetico in cui le cose andranno meglio (“quanno me pija bene”),
finisce a sfogliare il catalogo fino a notte fonda e non guardare nulla. Una
scena che è banale se letta nel semplice rispecchiamento in questa abbondanza
capitalistica, divertente per l’autoironica allusione marchettara alla
piattaforma che ospita il suo lavoro, potente se letta come metafora
contemporanea del blocco individuale di fronte alle varie possibilità della
vita, esaminate, selezionate, procrastinate ma alla fine mai colte, per
rimanere in un eterno limbo.
La serie si
conclude con la morte che è la morte non solo di Alice ma anche di un ciclo di
vita di Zero, che, nelle puntate precedenti, sembra aver compreso ed espiato i
suoi mali anche grazie alla visione di Sarah: la lagna social, lo schivare la
vita, il non cogliere i messaggi di interesse amoroso, la sua condizione di uomo
privilegiato che però si lamenta sistematicamente, l'egocentrismo e così via. I
tre dunque rimangono soli, sembra che sia qui tutto quello che è rimasto e da
cui ripartire. Tuttavia, si ha l’impressione che non sia un morte da cui
risorgere una volta per tutte, non sembra giunta, insieme alle varie
consapevolezze, una palingenesi individuale e collettiva (Zero conosceva
l’immagine dei fili d’erba già dalle scuole medie), ma una morte simbolica e passeggera, nell’eterno ciclo di morti e
resurrezioni blande a cui è costretto ogni sistema di vita e di pensiero dei
membri di questa generazione.
A fronte di questo,
forse si capisce, perché a volte è meglio di niente andare a prendersi un
gelato.
Claudio Leone
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