lunedì 5 aprile 2021

#Dantedi - I PAESAGGI DELL' INFERNO DANTESCO Riflessioni e ricerche di Claudio Leone



 

I PAESAGGI DELL' INFERNO DANTESCO
Riflessioni e ricerche di Claudio Leone



La Divina Commedia è tra le opere più note e studiate di tutti i tempi, che vanta una bibliografia sterminata, al cui interno -con metodi e approcci differenti- trovano posto i più svariati aspetti del Poema. Un aspetto meno studiato della Commedia, tuttavia, riguarda i paesaggi oltremondani che sono lì costruiti e, più in generale, l’aspetto visivo del Poema, che riguarda i luoghi, le modalità di esplorazione e i movimenti nello spazio. Di tale aspetto ci si è occupati in altri lavori  (tesi magistrale in “Filologia e critica dantesca” e altrove). Durante le ricerche, ci si è focalizzati su tali aspetti e si sono sondate le fonti utilizzate - che in Dante sono sempre plurime, stratificate e condensate - per la costruzione di tutti i paesaggi della prima cantica. 

Nel presente articolo si fornisce un breve e parziale riassunto che parte, metodologicamente, dalla voce “paesaggio” dell' Enciclopedia Dantesca, nella quale si sottolinea come sotto questo nome si trovano sia i paesaggi che forniscono la struttura e gli scenari del Poema sia i tanti ricordi geografici rammentati nell’opera: benché i due aspetti siano estremamente legati tra di loro, si è deciso di occuparsi solo dei primi, nominandoli “paesaggi strutturali”. La definizione di paesaggio utilizzata, quale «insieme organizzato di tutte le fattezze sensibili di una località, nel loro aspetto statico e nel loro dinamismo», è evidentemente una nozione moderna, sconosciuta al Medioevo, ma che fornisce una specola critica ulteriore, che include aspetti sensoriali oltre alla vista, ossia l’olfatto e l'udito, che pur sono presenti nell’opera dantesca. 

Il concetto di paesaggio, che nasce nel Quattrocento, è quindi ignoto a Dante, il quale però intuisce perlopiù un “sentimento di paesaggio” e crea una geografia letteraria oltremondana in cui l’aspetto “geomorfologico” (afferente al “senso letterale”) dei paesaggi ben si concilia con gli aspetti allegorici, tipici della sensibilità del tempo. La geografia medievale, inoltre, non va considerata negli aspetti epistemologici a noi noti, dacché essa si struttura come tale nell’Ottocento in pieno clima positivista, ma nel suo essere da un lato disciplina non strutturata, spesso ancillare alla storiografia, e non “canonizzata” nelle “arti liberali” e, dall’altro, composta di fonti scritte e orali (racconti di mercanti, pellegrini e viaggiatori) di cui poco ci è giunto, che presentano una forte presenza di elementi fantasiosi. Inoltre, l’uomo del Medioevo guarda al mondo e alla natura con occhi cristiani, gli è aliena la contemplazione degli elementi sensibili in sé, ma li percepisce come figura di Dio, tracce moriture della Creazione e, pertanto, foriere di messaggi da decriptare. La cultura del Poeta ci impone anche la ricognizione delle fonti libresche utilizzate per la creazione dei paesaggi, quindi- in primis- i classici latini e la Bibbia, ma anche la presenza di fonti “geografiche” (scritte oppure orali e, pertanto, frutto di congettura); è necessario perlustrare anche l'azione del ricordo di luoghi visitati (Firenze e le varie sedi dell’esilio) fino ad allargare il campo all’immaginario legato ai luoghi, ai simboli e alle percezioni coeve. L’intento principale della ricerca, dunque, mira a sondare con particolare attenzione l'influsso di ciò che Dante ha effettivamente visto e non solo di ciò che ha letto.

Sulla base di tali premesse si rende evidente come la selva oscura con cui si apre il poema sia figlia dell'immaginario del tempo, di un’Europa ben più ricca di foreste, spesso relegate al di fuori dalle mura: come la selva oscura, quale periferia dell'inferno vero e proprio. 

Il pellegrino, dopo l'ostile incontro con le tre fiere, scorge un'ombra, che si scoprirà essere Virgilio, e scrive «vidi costui nel gran diserto». L'affermazione stupisce, dal momento che l'incontro avviene nella selva, ma, probabilmente, non stupiva i contemporanei di Dante. Era infatti consueta ai tempi la sovrapposizione tra selva/ foresta e il deserto. Come ricorda lo storico medievista Jacques Le Goff, tale sovrapposizione si produce per ragioni storiche, quando il fenomeno del monachesimo, inizialmente orientale, dalle distese desertiche muove verso l’Occidente, sicché i monaci occidentali trovano la necessaria lontananza dal mondo - paradossalmente - nel suo opposto geografico: in mancanza di deserti, la foresta diventa essa stessa il deserto. 


If. I, 1-6; 58-66


Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura,

ché la diritta via era smarrita.                                           


Ahi quanto a dir qual era è cosa dura

esta selva selvaggia e aspra e forte

che nel pensier rinova la paura!    


[…]    


tal mi fece la bestia sanza pace [la lupa],

che venendomi ’ncontro a poco a poco

mi ripigneva là dove ’l sol tace.                                      


Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,

dinanzi agli occhi mi si fu offerto

chi per lungo silenzio parea fioco.                                  


Quando vidi costui nel gran diserto,

«Miserere di me,» gridai a lui,

«qual che tu sii, od ombra od omo certo!» 




 

 FIG. 1. Gustave Doré, "Dante nella Selva Oscura", 1861 - Illustrazione per la Divina Commedia di Dante Alighieri.


L'itinerario prosegue varcando la porta infernale e i due pellegrini sono subito colpiti dalle grida di dolore dei dannati: «Quivi sospiri, pianti e alti guai». Si badi che questa è la prima percezione dell’inferno, tutta uditiva. Attraverso il ricorso a un’altra nozione moderna, quella di “paesaggio sonoro”, con cui si intende  «l’ambiente dei suoni. Tecnicamente, qualsiasi parte dell’ambiente dei suoni considerata come campo di studio e di ricerca [e che] può applicarsi tanto ad ambienti reali, quanto a costruzioni astratte», è possibile tracciare, già dai prodromi del vestibolo, il “paesaggio sonoro” dell'inferno, che presenta solo il rumore, il pianto, l’urlo di disperazione e la bestemmia, squalificando ogni possibilità di musica, a differenza delle altre due cantiche.


If. III, 22-30


Quivi sospiri, pianti e alti guai 

risonavan per l’aere sanza stelle, 

per ch’io al cominciar ne lagrimai.                                 


Diverse lingue, orribili favelle, 

parole di dolore, accenti d’ira, 

voci alte e fioche, e suon di man con elle                     


facevano un tumulto, il qual s’aggira 

sempre in quell’aura sanza tempo tinta, 

come la rena quando turbo spira.             


Il viaggio prosegue con l’approdo al primo cerchio, il limbo, che - paesaggisticamente- presenta una divisione in due regioni, che rispecchia la differenza morale dei suoi  abitatori. Una prima sezione indistinta, priva di descrizioni, percorsa solo da lamentazioni e una seconda, invece, ben particolareggiata, nella quale meglio si evidenzia la cifra allegorica che pervade tutti i paesaggi della Commedia. Un'evidenza già notata dai primi e più antichi commentatori dell’opera, che ci ricorda la già citata sovrapposizione tra piano letterale e piano simbolico, costitutiva di tutti i paesaggi dell’opera. In questa seconda regione del Limbo, Dante e Virgilio sono accolti e scortati dai più grandi poeti dell'Antichità: Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. La “sesta compagnia” oltrepassa un fiumicello senza difficoltà («come terra battuta») per poi passare attraverso sette porte di altrettante mura concentriche. La cifra allegorica, celata dietro i vari elementi del paesaggio, è tuttora oggetto di dibattito: a titolo di esempio, il fiumicello come  dote dell' eloquenza, perché oltrepassata senza alcun problema dei Poeti, le sette mura come le sette parti della filosofia o le sette virtù morali.  La compagnia, quindi, s'inerpica verso una collinetta, che ospita, alla sua sommità, un «nobile castello» dimora degli “Spiriti Magni”, i magnanimi di tutti i tempi, pagani o non cristiani. L’intento allegorico del castello, dai più inteso come monumento all’intelligenza umana, poggia su un immaginario visivo schiettamente medievale, che prevede la presenza di elementi difesa (naturali come il fiume e la collina, artificiali come le mura) a protezione del castello, pur in totale assenza di nemici da cui difendersi: l’apparato di conoscenza visive rende impossibile al Poeta di “costruire” diversamente un castello. 







IG. 2 Il nobile castello. Miniatura del ms. Egerton 943 (f. 9v), conservato presso la British Library.

Infine, si fornisce un ultimo esempio di paesaggio, la città di Dite, che costituisce l’ottavo cerchio, dimora ultraterrena degli eretici.  La presenza di una città nell’inferno è una evidente spia di un immaginario cittadino (come quello di Dante), che opera anche attraverso gli occhi nella costruzione letteraria di scenari e che, nella più vasta panoramica della storia delle rappresentazioni infernali, segna una frattura importante, che si può qualificare, con la felice espressione di Camporesi, come una «urbanizzazione dell’inferno».


If. VIII, 67-78



Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo, 

s’appressa la città c’ha nome Dite, 

coi gravi cittadin, col grande stuolo».                             


E io: «Maestro, già le sue meschite 

là entro certe ne la valle cerno, 

vermiglie come se di foco uscite                                    


fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno 

ch’entro l’affoca le dimostra rosse, 

come tu vedi in questo basso inferno».                        


Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse 

che vallan quella terra sconsolata: 

le mura mi parean che ferro fosse.                                



Anche in questo caso la rappresentazione dell’esterno della città risente delle conoscenze visive del Poeta, dal momento che essa è costruita secondo i modelli coevi: un ostacolo naturale (la palude Stigia), un vallo, mura, torri di guardia (con l’intromissione di «meschite», elementi architettonici islamici) e una grande porta sbarrata da un cancello. Insomma, tutto lascia presagire l’ingresso in una città, ma, una volta sbarrate le porte della città- ad accogliere i cittadini non vi è una via principalis, ma uno stretto sentiero che costeggia le mura. I due pellegrini si muovono «a man destra»- fatto di per sé significativo, perché il movimento nell’inferno è sempre verso sinistra- attraverso il sentiero e guardano non una varia umanità (tipica delle città medievali) ma una distesa di bare: la città di Dite è un cimitero, è una città di morti. Le bare infuocate -  gli «avelli»- ospitano gli eretici, quanti non hanno creduto nella vita eterna, tra i quali si ricordano Farinata degli Uberti e Cavalcante dei Cavalcanti, padre di Guido, poeta e (un tempo) amico di Dante. 

Nel canto X dell’Inferno si legge che le tombe non sono dissimili da quelle di Arles e Pola, due antiche necropoli molto famose ai tempi. Da un lato, la cittadina provenzale di Arles, antica Arli, era nota attraverso leggende per l’antico cimitero romano di Alyscamps, tuttora esistente, dall’altro Pola, in Istria, nella quale era presente una necropoli forse visitata da Dante: la presenza del Poeta in questi due luoghi sembra più frutto di leggenda, tuttavia il loro impiego in similitudine, toccava le corde dell’orrore, il sentimento suscitato da queste favoleggiate località. Nel testo si legge che le tombe rendono «tutto ‘l loco varo», interpretato dalla maggior parte dei commentatori (antichi e moderni) come “vario”, sicché le tombe avrebbero disposizione irregolare. A tale interpretazione si sottrae il Boccaccio, che interpreta l’aggettivo come “incamerellato”, ossia “diviso in vani”, e adduce la similitudine con la pelliccia di vaio, che presenta- grossomodo- una divisione geometrica in chiazze bianche e nere. Se così fosse, applicando questa immagine alla città di Dite- risulterebbe un disegno geometrico simile alla cosiddetta “pianta ippodamea”, che presenta la disposizione geometrica, ad angoli retti, degli edifici di una città. Un particolare interessante, giacché la pianta ippodamea era la pianta urbanistica di Firenze ai tempi di Dante, che si unisce al clima fiorentino già introdotto dagli eminenti abitatori della città (i già citati Farinata e Cavalcante), e che ci induce a scorgere, tra gli angoli retti delle tombe infuocate- l’amara città che ha cacciato il poeta. 





FIG. 3 “cartolina” di Corinto Corinti (anni Venti del Novecento): ricostruzione delle 36 chiese fiorentine nell’anno 1000, in cui si apprezza la pianta ippodamica (“a scacchiera”).












FIG. 4 Cimitero di Alyscamps ad Arles in Provenz





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FIG.5 Pelliccia di vaio



1 C. LEONE, «Per conoscer lo loco dov’ io fossi». Paesaggi dell’Inferno, in press.

2 C. LEONE, Note sui paesaggi danteschi. l’Inferno, in press.

3 Cfr. G. DI PINO, s.v. paesaggio, in Enciclopedia Dantesca, Istituto dell’Enciclopedia Italiana,

vol. IV, Roma 1970, pp. 248-251.

4 P. ROSSI, Lineamenti geomorfologici dei paesaggi italiani, Cacucci, Bari 2012, pp. 11-12.

5 Per le conoscenze geografiche di Dante e lo statuto della geografia ai suoi tempi: Cfr.

M. AZZARI, Natura e paesaggio nella Divina Commedia, Phasar, Firenze 2012, pp.7-13.

6 If. I, 64.

7 J. LE GOFF, Il deserto-foresta nell’Occidente medievale in ID., Il meraviglioso e il quotidiano

nell’Occidente medievale, a cura di F. Maiello, Laterza, Bari 1983, pp. 27-44.n

8 If. III, 22.

9 R. MURRAY SCHAFER, Il paesaggio sonoro, traduzione di N. Ala, Ricordi-Lim, Milano-Lucca 1985, p. 372.

10 P. CAMPORESI, La casa dell’eternità, Garzanti, Milano 1987, p. 24.

11 If. IX, 132.

12 If. IX, 115.

13 La pianta ippodamica o ippodamea, risalente all’urbanista greco Ippodamo di Mileto, vissuto ad Atene nel V secolo a.C, era applicata alle città in pianura. Tale pianta fu poi utilizzata anche dai Romani ed «era impostata su due assi principali: il cardo maximus e il decumanus maximus. Il primo si identificava come via principalis, l’altro come via praetoria»: P. ROSSI, Lineamenti geomorfologici dei paesaggi italiani, Cacucci, Bari 2012, p. 16.

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