Inquietudine e senso di soffocamento dato dal restringimento dello spazio entro cui Xavier Dolan ci racchiude, sono sensazioni immediate da cui si avverte l'urgenza di sottrarsi, di scappare. Ma Dolan non ci lascia tempo per proteggerci, ci inchioda alla poltrona trascinandoci fino allo strazio in uno spazio angusto dove si respira aria di amore malato con un'energia esplosiva, incontenibile, rumorosa. In un formato 1:1 fa muovere Diane (Anne Dorval), vedova da tre anni che fa già fatica a gestire la sua vita, eccessiva nei gesti e nel look, che tra una sigaretta ed una parola volgare, si vede costretta ad occuparsi di suo figlio Steve (Antonine-Olivier Pilon) dopo l'espulsione da un istituto di recupero per ragazzi borderline, a causa di un incendio provocato dal ragazzo. Noi siamo tra madre e figlio, in un amore morboso urlato, sussurrato, violento e sofferto, incapace di stare in equilibrio, finché non arriva Kyla (Suzanne Clément), la loro vicina. Gli occhi di Kyla sono coperti da uno strato di tristezza, buio come la voragine di un dolore troppo grande che la induce a distaccarsi dalla sua famiglia per proiettare su Steve l'amore verso il figlio perduto. I ritmi si fanno più lenti in un'atmosfera di gioia, complicità e cura paziente, ed il nostro respiro si allunga nella stessa misura in cui Steve allarga lo schermo sulle note di Wonderwall degli Oasis, lasciando spazio alla prospettiva di un futuro diverso. E' anche la misura del sogno di Diane che viene dopo aver raccontato a suo figlio di come la natura voglia che col passar del tempo lei lo ami sempre di più, così come lui dovrà imparare ad amarla sempre meno. Ma lo spazio di un sogno è un attimo che vola via con l'illusione che si possa forzare o cambiare la natura umana e la più dura realtà rompe l'incanto. Grande lavoro di Xavier Dolan, premiato a Cannes dalla giuria, che a soli venticinque anni è già al suo quinto film ed irrompe nelle sale come un tornado di fuoco e cenere e la cui splendida interpretazione è materia della follia.
Antonietta D'Ambrosio
Eccellente Antonietta!
RispondiEliminaAncora una volta ci porti per mano e ci racconti del film, regalando emozioni.
“Inquietudine e senso di soffocamento”.
Certo! Toglie il fiato questo capolavoro cinematografico, che descrive con maestria l'amore materno che “non basta”, non può bastare, perché "non basta amare qualcuno per salvarlo".
Ma una madre non può accettare tutto ciò, non può rimanere inerte anche di fronte a un muro di "scettici".
Geniale, è solo geniale descrivere con verità crudele la sconfitta dell'amore materno di fronte alla oscura patologia della psiche; sconfitta tutta espressa nella meravigliosa scena della disperazione finale e in solitudine di Diane.
Lacrime, lacrime liberatrici ti prendono come madre spettatrice.
Ma Lei no! Diane non piange.
Dialoga, in un “non dialogo”, sino alla fine recitando con il suo alter ego di amore materno, la morigerata e sofferente Kyla.
Ma non si lascia andare; no, non lo fa pubblicamente.
Lei ha incassato la sua “sconfitta” come madre, scegliendo di far ricoverare di nuovo suo figlio, per salvarlo da se stesso, dopo un tentativo di suicidio.
Ma Diane non confessa quella “sconfitta”, non lo vuole fare, prima di tutto a se stessa.
Il tocco finale è il primo piano di Steve, quando tenta la fuga dai suoi “carcerieri” e ha una porta chiusa davanti a sè; ma fugge, raccontandoci ancora una volta che ha solo bisogno di amore e libertà.
Chiederà a sua madre “ma noi due ci amiamo?”. E lei risponderà ancora: “Certo, è la cosa che ci riesce meglio”.