venerdì 1 dicembre 2023

Ambivalenza del limite: stati-limite e limiti degli stati



Relazione del dr. Achille MIGLIONICO alla GIORNATA IAT "Onnipotenza e limite", Verona, 13-14 Maggio 2023 (in Atti del Convegno). L'articolo, non di facile fruizione, era indirizzato ad esperti psicoterapeuti e viene qui pubblicato per gli studiosi e interessati del settore .


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AAAmbivalenza del limite: stati-limite e limiti degli stati


dr. Achille Miglionico, psichiatra, psicoterapeuta, PTSTA-C, Presidente Direttore SIEB

 

Ex Oriente Lux

 

 

Ogni persona intuisce che cosa sia la onnipotenza. Essendo lo stesso concetto senza limiti, occorre definire, e definire significa dare limiti ad un concetto. 

 

Onnipotenza O. del pensiero : in psicanalisi, espressione adottata da S. Freud per designare un atteggiamento psichico comune al bambino, al primitivo e a certe forme patologiche (nevrosi e psicosi) collegate a dimensioni magiche. La credenza nell’o. produce la convinzione di poter controllare con il proprio desiderio l’intera realtà…. Il ricorso all’o. permette allora il controllo dell’oggetto, sia interno sia esterno, e qualifica difese primitive come il diniego e l’idealizzazione, risultando quindi elemento caratteristico delle difese maniacali”. (così recita la Enciclopedia Treccani). Altrove[1] sinteticamente: “Onnipotence of the Id: The infantil conviction that wishes must and will be fulfilled.” 

 

Dal punto di vista psicodinamico abbiamo affrontato e delineato sin dagli anni Novanta del secolo scorso punti fondamentali sulle organizzazioni marginali di tipo borderline e narcisista[2] , collocando le sindromi preedipiche sull’asse psicoevolutivo della Mahler[3]: ne originava un Marginal Cases Continuum tra area preedipica psicotica e l’area edipica (nevrotica).

 

 

 

 

Scrivemmo: “I fallimenti del processo di separazione-individuazione determinano strutture scisse dell’Io nella personalità borderline, oppure le iperelaborazioni grandiose del Piccolo Professore (A1) nel Sé narcisistico…” (p. 68, 1993) Poi: ”In sintesi: il disturbo borderline deriverebbe da un arresto più o meno precoce nella fase di individuazione-separazione mentre quello narcisistico deriverebbe da un arresto più o meno tardivo nella fase di individuazione-separazione,” (p. 69). I dati odierni di osservazione clinica confermano ancora oggi la validità di quanto allora espresso. Anzi la evoluzione sociale del nuovo Millennio attraverso i media digitalizzati hanno reso la presenza nella Rete un must; i cd social invadono come surrogati di relazione gli spazi del Sé e spesso costituiscono “vetrine narcisistiche” ove esibirsi e perdersi nel molteplice, alla ricerca di una identità perduta.

Altrove parlavamo dei meccanismi di difesa di basso livello per dirla alla Kernberg, da osservare nel setting ai fini di una diagnosi psicodinamica, in linea con Glen O. Gabbard[4] e la Scuola di Psichiatria psicodinamica: 

·       Per il marginale-borderline: scissione (splitting) in primis da cui origina il tipico transfert scisso; idealizzazione primitiva, identificazione proiettiva, negazione, onnipotenza, svalutazione. 

·      Per il marginale-narcisista: negazione (denial), che copre la depressione abbandonica, da cui deriva il transfert idealizzatoonnipotenza, da cui derivano il senso di grandiosa unicità (specialness), l’aspettativa di ammirazione incondizionata, le fantasie di illimitato successo, la sensazione che tutto sia dovuto, l’anempatia (mancato riconoscimento dell’Altro), lo sfruttamento interpersonale; svalutazione. 

E qui nel paragrafo “Onnipotenza, pensiero magico e Bambino Grandioso”, sottolineavamo come “nel processo di individuazione si può presumere che solo uno sviluppo armonico dello psichismo conceda all’individuo di relegare atteggiamenti onnipotenti adeguandosi e accettando i limiti posti dal circumambiente. Nella lenta elaborazione di questa interazione con la realtà il bambino ha da rinunciare gradualmente ma pesantemente ad una modalità magica del pensiero” ed alle “istanze onnipotenti.”  “…Analogamente un tipo di pensiero magico si osserva nella cultura degli antichi e nella cultura di popoli allo stato-di-natura (Naturvolker sec. Tischner, 1968)…”  (par. 4.3.1.- p. 84)

Quindi la Onnipotenza è il meccanismo di difesa che l’Uomo dalla sua origine ha messo in atto dinanzi alla finitezza della condizione esistenziale. Quando l’Islandese incontra la Natura nel dialogo di Leopardi (Operette Morali), lì è rappresentato l’Uomo, non solo Giacomo. L’Uomo che viaggia in una Natura indifferente e “matrigna” che gli chiede brutalmente Chi sei? Perché l’uomo è Nulla dinanzi alla Natura. [5]

La Saga di Gilgamesh, il popolo dell’Iliade e il romanzo di Odisseo-Ulisse sono tutte rappresentazioni di confini tra paura e sfida. Descrivono come l’umanità in evoluzione abbia fatto gradualmente i conti con la onnipotenza, superando la propria adolescenza, nella schiacciante superiorità della Natura.  

 


Dalla tradizione orale dei Sumeri nel terzo millennio a.C., ci è stata  tramandata l’epopea di Gilgamesh. Per migliaia di anni popoli del Vicino Oriente ci hanno lasciato tavolette d’argilla scritte in caratteri cuneiformi, che rappresentano nell’insieme il primo racconto strutturato dell’umanità, un’opera che si pone alle origini stesse della letteratura mondiale, in quanto precede i poemi indiani e quelli del filone omerico. Il re di Uruk, Gilgamesh è infatti il primo eroe (Supereroe? diremmo oggi) in grado di partire in cerca di avventure, di uccidere mostri prima di Eracle, di sfidare gli dèi prima di Odisseo, di viaggiare ai confini della terra deciso a conquistarsi con le sue gesta un nome imperituro prima di Achille. 

“E’ il più antico poema epico-eroico che si conosca” (G. Pettinato[6], che ne ha fornito insuperata traduzione). Il leggendario eroe sumerico è legato a gesta, cronologicamente posteriori al Diluvio Universale, che ispirarono miti e leggende successive, costituendo una sorta di fonte mesopotamica originaria: è paragonabile alla c.d. fonte Q dei Vangeli sinottici, con la differenza che in questo caso abbiamo scoperto la fonte. Così dalla epopea di Gilgamesh discendono temi inclusi nell’Iliade e nella Odissea ed eventi e personaggi che influenzarono la stessa Bibbia, si vedano il Diluvio stesso[7] e il personaggio di Noè, che nella saga mesopotamica (Tav. XI) si chiama Utnapishtim. Senza addentrarsi nella trama del Gilgamesh facciamo notare alcuni particolari di interesse psicologico: il re leggendario difende Uruk con maestose mura e la civiltà nasce dalla urbanizzazione che preserva con confini litici la fragilità umana dagli attacchi di predatori umani ed animali; il re è però, al di là delle opere edilizie e del suo altruismo,  turbolento come un adolescente e diventa inviso al popolo per le continue guerre. Inquieto ed onnipotente - a livelli che diremmo ipomaniacali, abusa persino dello ius primae noctis. Il popolo, pur grato per la sicurezza del regno,  è intimorito dalla di lui possanza fisica e gli stessi dei sono o seccati o preoccupati in quanto Gilgamesh – alla pari di eroi omerici – è per due terzi divino ed un terzo umano. Ma sta esagerando e gli dei chiamano Aruru la quale dea crea un essere “figlio della steppa” che possa con la sua forza selvaggia contrastare gli ardori di Gilgamesh “figlio degli dei”. Ecco che compare Enkidu, l’uomo primordiale ricoperto di peli in contrasto con l’uomo civilizzato. Dapprima è scontro tra i due poi nasce una amicizia fortemente erotizzata, ”Io lo amai come una moglie, lo abbracciai forte”, il che a taluni autori ha ricordato l’amore omosessuale tra Achille e Patroclo. I due porteranno a termine insieme imprese erculee fino a che – saltiamo alla VI Tav. – la dea dell’amore Ishtar invaghitasi dell’eroe gli si offre ma Gilgamesh rifiuta l’unione in maniera oltraggiosa. Ishtar non la prende bene e fa inviare dal padre Anu su Uruk il Toro Celeste che comunque sarà faticosamente ucciso dai due antitetici eroi. Cresce l’ira di Ishtasr che architetta allora la morte di Enkidu non per azione bellica bensì per malattia e sfinimento. Enkidu sogna prima la sua morte e quindi muore veramente (VII Tav.). Nel poema labile è il confine tra realtà e sogno. Come nell’Iliade.

Ecco la svolta nella trama e nella psiche. Perdita e dolore fanno impattare la realtà umana.

 

 

 

(Tav.IX) Gilgamesh per Enkidu, il suo amico, 

piange amaramente vagando per la steppa:

«Non sarò forse, quando io morirò, come Enkidu? 

Amarezza si impadronì del mio animo, la paura della morte mi sopraffece 

ed ora io vago per la steppa…

 

Con la morte inaccettabile di Enkidu, il compagno guerriero per eccellenza, Gilgamesh, atterrito e ormai solo, affronta la nuova impresa: la ricerca del segreto della vita eterna, un segreto che solo Utnapishtim sembra possedere, lui che appare immortale. Gilgamesh alla fine tornerà ad Uruk a mani vuote, ma ricco di una nuova consapevolezza: la morte è l’ineluttabile destino che gli dei hanno assegnato all’uomo, e nel godimento di questa vita finita ed effimera risiede la sua sola saggezza.

E infatti a Gilgamesh, dopo tante traversie, viene attribuito nel poema l’aggettivo di “saggio”:  «il Saggio», cioè colui che finalmente è cresciuto ed è arrivato alla conoscenza. Egli è ora consapevole dei limiti Adulti – diciamo in AT delineando il concetto di “guarigione”  berniana dell’Adulto integrato.

Il posteriore poema greco Iliade, è anch’esso intriso di marginalità: apparentemente dedicato all’ “ira funesta del Pelide Achille” , narra di scontri tra fazioni di dei, tra umani e umani in un continuo teatro onirico ove reale e non-reale hanno confini labili, dove le stesse individualità degli eroi descritti appaiono, malgrado la onnipotenza onnipresente, impastate in masse inconsapevoli che si uccidono in scontro decennale. La impossibilità di tradurre filmicamente l’Iliade la si intravvede in Troy (2004) ove il regista W. Petersen ha abolito gli dei favorendo le figure umane. Lo stesso Alessandro Baricco, nel suo romanzo  Omero, Iliade supera la complessità dell’ordito e la diffusione di identità con una geniale trovata:  abolisce le masse. Il volume nasce da un progetto di rilettura del poema omerico destinato alla scena teatrale e così Baricco “smonta e rimonta” l'Iliade creando monologhi, corrispondenti ad altrettanti personaggi del poema. Così si individuano gli Io estraendoli dalla massa amorfizzante e si forniscono narrazioni e punti di vista diversi degli stessi eventi. Solo alla fine la figura di un aedo racconta, in chiusura, l'assedio e la caduta di Troia. 

L’Odissea invece si presenta come il primo romanzo dell'uomo mediterraneo, e palesa una modernità sconosciuta all'Iliade: una modernità ove il Noi diventa Io. La storia è composta da individui piuttosto che da masse e Odisseo è l’eroe omerico che pur viaggiando nel mito riatterra nella realtà brutale di Itaca dopo dieci anni di punizione divina che lo ha condannato a errare invano sino alla catarsi. Egli, nella vanagloria di aver fatto cadere Ilio-Troia grazie alla sua astuzia, è infatti reo di  onnipotenza - in maniera poco furba per il suo intelletto tanto decantato - in quanto ha osato sfidare, travalicando i limiti umani. Ritenendosi  più intelligente degli dei ha offeso  Posidone, il quale lo farà naufragare più volte durante il Ritorno, il   νόστος, decimando i compagni fidi. 

Giuseppe Maria Vadalà, analista junghiano, nel suo Nessuno ascolterà Ulisse? Funzioni terapeutiche nell’incontro analitico (Moretti e Vitali ed., 2007) descrive bene come Odisseo simboleggi uno dei primi pazienti della storia, nell’antico racconto dell’incontro così umano con i Feaci-analisti: dopo aver rinunciato ad Ogigia alla immortalità-onnipotenza offerta dalla dea Calipso, pur di tornare da Penelope e Telemaco suo figlio, supplicherà la dea di fornirgli il mezzo per finalmente tornare a casa. La dea Calipso cede dinanzi al sentimento di Ulisse e lo lascia partire ma lui naufragherà per l'ultima volta sull’isola dei Feaci. Approdato “nudo e mendico”  sulla spiaggia, non mostra alcuna spavalda regalità e vergognoso agli occhi di Nausicaa, dichiarerà la sua identità solo alla cena del re Alcinoo, solo dopo aver pianto nel riascoltare la caduta di Troia declamata dal cantore cieco Demodoco: lì si svelerà e avrà inizio la autonarrazione analitica. Il racconto in greco è anàmnesis. Solo dopo tale processo terapeutico potrà rientrare alla sua Itaca, alla sua Penelope. 

“Nella letteratura europea per la prima volta compare un Io che racconta sé, la propria vita, davanti ad un altro. La rappresentazione offertaci è quella della nascita della autocoscienza riflessiva…” (Vadalà, pag.103, op.cit.). E la psicoanalisi lancia un ponte alla medicina narrativa dei nostri giorni. Leggiamo il passo:

 

“E a tutti gli altri  [Ulisse] rimaneva nascosto mentre piangeva

Solo Alcinoo (= analista) se ne accorse e intese…”

“…Tu non celare con scaltri pensieri

ciò che ti chiedo: è più bello se parli

Di’ il nome col quale ti chiamano…”

 

Il set-setting è disegnato da un confine murario (l’antico temenos, il recinto  del tempio di Asclepio ove si veniva terapizzati). Bellissimo e puntuale  l’intervento dell’analista-Alcinoo: l’alleanza terapeutica è salda, alla transazione GB di protezione segue la angolare (è più bello se parli…) con successiva transazione di permesso. E Odisseo si apre e si rivela: 

 

“Sono Odisseo, figlio di Laerte, per tutte le astuzie

noto agli uomini e la mia fama va fino al cielo…”

 

Orgoglio e peso gravano al contempo. In quel la mia fama va fino al cielo vi è una pesante contaminazione analogica (Miglionico, 1993) perché dal cielo è caduta la maledizione su di lui. Nessuna traccia di onnipotenza, neanche nell’orgoglio iniziale (…noto…). Si va verso la “guarigione” attraverso la rinuncia alla onnipotenza.

 

 

Concludiamo traendo spunto da un intervento dal titolo «Mito e linguaggio metaforico nell’analisi del copione» , un vecchio scritto (Miglionico A., in Atti Conv. Naz. Di AT 1994, Bari 29 Aprile-1 Maggio) per integrare ulteriormente gli aspetti antropologici e psicodinamici della onnipotenza e per parlare di altri limiti, i limiti copionali. Lì si rifletteva su come il Mito generico di riferimento dell’organizzazione marginale di personalità fosse basato sul dilemma di Amleto ma «l’essere-non essere non è basato su di una impasse depressiva» scrivevamo «…è del tipo  Lotto ai confini di Me, cioè O mi perdo nell’Altro (rischio di fusione) o perdo l’Altro (rischio di follia autistica).” E Amleto impazzisce simulando follia.

Se il Sé va inteso quale metasistema dei fenomeni egoici e subegoici (Stati dell’Io) (1993, 1996) tale dilemma amletico è giocato ai bordi mutevoli del Sé («Dove finisco Io e comincia l’Altro?») Il primo Amleto che gioca ai bordi dell’Io e del Sé è proprio Gilgamesh (1994) nel III millennio aC.  E’ dal 1994 dC che il mito-leggenda (mi) affascina mentre l'onnipotenza umana rischia di farci regredire all'Ulisse che sfida stoltamente la Natura. (Achille MIGLIONICO) 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Chaplin J.P., Dictionary of Psychology, Laurel, 1983.

[2] Due volumi classici nella ricerca e clinica rimangono Il Sé LimiteAnalisi transazionale psicodinamica e patologia di confine (Miglionico A., Novellino M., FrancoAngeli Ed., Roma, 1993) e il cap. Organizzazioni Marginali (Miglionico A.) in L’Approccio Clinico della Analisi Transazionale(AA.VV., a cura di Novellino M., FrancoAngeli ed., 1998). Alle due opere ci riferiamo nel presente scritto.

[3] Mahler M.S., La nascita psicologica del bambino, Boringhieri Ed., Torino, 1978 (1975)

[4] Gabbard G.O., Psichiatria psicodinamica, Cortina ed., Milano, 1995 (1994). V Edizione (2015) basata sul DSM5. Ancora sul tema: Il disagio del narcisismo (con H. Crisp, Cortina, 2019).

 

[5] Come la maggior parte delle Operette, anche il Dialogo della Natura e di un Islandese venne composto nel corso del 1824. Struggente l’incipit e la fine.  “Un Islandese, che era corso per la maggior parte del mondo, e soggiornato in diversissime terre; andando una volta per l’interiore dell’Affrica … Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni prima, nell’isola di Pasqua. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente; e stata così un buono spazio senza parlare, all’ultimo gli disse.

Natura:  Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita? 
Islandese:  Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura…”

 

[6] Giovanni Pettinato (1934-2011) è stato storico, assiriologo, specialista in lingue mesopotamiche. Decifrò la lingua eblaita. Il suo volume La Saga di Gilgamesh edito da Rusconi nel 1992 fornisce saggi e traduzione dell’epopea. 

[7] Incredibilmente del tema del Diluvio Universale quale catastrofe universale che dovette veramente accadere e  lasciare non molti superstiti, solo in Mesopotamia abbiamo evidenze nell’altro poema Atrahasis (Tav. II-III), paleobabilonese (circa 2000 aC), ripreso da una versione sumerica Ziusutra (circa 1600 aC) e dalla più recente versione Xisuthros del babilonese Beroso (276 aC). Oltre alla nota tradizione biblica ((Gn, 6, 5-9, 17) si ritrova il tema anche in  testi induisti. 

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