sabato 20 gennaio 2001

AFRICA del SUD


Appunti di un post-viaggio del 2000
(come andare in Africa e non "rientrare" mai)


Stanotte ho sognato l'Africa del Sud.
Veramente mi è capitato ogni notte e per un mese intero dopo essere rientrato in Europa a fine agosto. Al ritorno ho compiuto un itinerario nel nord Europa, tra Amsterdam, Bruxelles, Lussemburgo e Germania ma ho continuato a sognare. Quasi di continuo il Figlio ha sognato la Madre. Non è malattia perché le malattie non fanno star bene. Mi manca e basta. Come in un sano amore. Non mi manca energia anzi l'idea di tornarvi mi consente di lavorare, nutrirmi, tollerare, godere, gustare, muovermi e star fermo quasi avessi fatto un corso di addestramento psicofisico. alla re-identità.
Torniamo alla "materia di cui son fatti i sogni" - direbbe Shakespeare.
Può essere un sogno brevissimo, quasi un flash, tipo istantanea fotografica: per esempio mi appare un baobab enorme come quello chiamato "Grande Albero" e contemplato al villaggio di Vic Falls. Dicono che quel baobab o mowana (in lingua locale) abbia milleseicento anni. Me lo immagino circondato dai bushmen: i boscimani San, le popolazioni che vi danzavano attorno, erano le incontrastate padrone prima che calassero dal centrafrica (tra il 300 e 700 d.C.) i neri di lingua bantu.
Può essere un sogno classico e completo.

Per anni, soprattutto da ragazzo, ho sognato l'Africa di giorno, ad occhi aperti, in quegli infrequenti ma significativi momenti in cui si vuole evadere dalla pressione quotidiana che si va facendo acutamente insopportabile o non gratificante. Sono cresciuto al ritmo dei filmati della Enciclopedia Britannica come oggi i ragazzi crescono a colpi di nutella e telefonini. Ho imparato a filmare e fotografare già a dodici anni per poter un giorno fotografare animali liberi. Allo zoo di Roma - negli anni sessanta - mi feci sbavare da una giraffa che mi sovrastava dalla alta rete perché rapito dalla elegante postura. La mia famiglia ha sempre poi avuto a che fare con l'Africa: uno zio di mia madre si sposò in Egitto al tempo dei lavori del Canale di Suez; un mio fratello ha lavorato per anni in Libia; mio padre vi ha soggiornato dal 1936 al 1946, tra ex-Africa italiana e Kenia; sua sorella e suo fratello minori hanno lavorato in Nigeria negli anni sessanta; ecc. Ricordo ancora il profumo intenso di una banana "vera" che mia zia tirò fuori dal borsone e mi offrì, appena scesa allo scalo di Ciampino, a Roma: a nove anni, quel frutto - che lei avrebbe anche scartato perché troppo maturo - aveva un odore di tale intensità che la proporzione tra quella banana ed una banana comperata in Italia era quella che corre tra l'amore ed una semplice attrazione. Ed io avrei voluto "stare" con quei geki grandi che dalla parete di casa, a Lagos, spaventavano la zia e che contemplavo nelle diapositive più degli umani rappresentati. Mi chiedevo perché gli zii non approfittassero mai per andare in escursione nelle foreste pluviali e si limitassero a mirarne i bordi. Personalmente non mi piacciono i bordi. Quando ho messo piede la prima volta in Africa, in Tunisia, avevo venti anni e lì - un Annibale al contrario - giurai che ci sarei tornato.
Successe un fatto al lavoro. Proprio due anni fa, da adulto maturo, durante una riunione di più stupida e stressante che mai, mi parve quasi che la mia parte bambina, all'improvviso, fiaccata dagli eventi, non volesse più seguire la parte adulta della personalità, quella che ci fa fare di conto , che chiede e da informazioni, che ci risolve problemi, che ci vede lavorare. Mi fu subito chiaro che stavo per esplodere davanti a tutti, colmo di insostenibile disgusto, e che navigavo in da troppo in quella micidiale mistura di noia e irritazione forte che prendono dinanzi alla passività altrui: contagiosa è la malattia che rende gli uomini e le loro organizzazioni resistenti ai cambiamenti, anche quando questi ultimi sono di vitale importanza per la sopravvivenza del lavoro stesso. Questo fa la differenza tra gli uomini: c'è chi è Ulisse e chi rimane Telemaco o Penelope. Proprio allora, per non esplodere, mi presi subito mentalmente cura di quella parte gemente di me che era lì lì per fuoriuscire ed invadere la stanza di lavoro e che sarebbe stata paradossalmente considerata "folle" quando in realtà folle era l'ostinata passività di tante persone dinanzi ad un problema che reclamava cambiamenti immediati. Cercai di tranquillizzarmi parlandomi mentalmente:
  • Calmati, non è il momento, ti capisco - mi dissi come parlando ad un figlio - Anche io non ce la faccio più a sentire assurdità. Ti calmerai? Non possiamo per ora scappare e andarcene da qui ...- il dialogo interno sembrava funzionare, quasi si fossero materializzati dentro di me degli interlocutori diversi, uno dei quali si prendeva cura dell'altro, più piccolo - Dimmi: che cosa posso fare per te? ...Sì, stai male.. E' meglio prometterci qualcosa di bello. Dimmi pure qualcosa che vuoi assai e vedremo di accontentarci al più presto.... - Volevo promettermi un regalo bello.
E fu lì, in quella mastodontica sala di riunioni dirigenziali che quella parte sussurrò:
  • Vittoria...
  • Come?
  • Cascate Vittoria.
  • Vuoi che andiamo alle cascate Vittoria? quelle che abbiamo sempre desiderato di vedere?
  • Sì.
E così mi sono inchiavicato con una promessa bella grossa ed ogni promessa è debito (anche verso se stessi). Sono andato in Africa australe, per neanche un mese.
Ora che ho visitato nella realtà di veglia alcuni angoli remoti del Continente Nero, il ritmo si è invertito e sogno l'Africa di notte. Una bella inversione.
Un bellissimo sogno (notturno) è stato questo.
Sono in una situazione critica che ricorda un naufragio avvenuto da poco. Non più tempeste di mare e cielo. Non vedo segni di naufragio sulla battigia di quella terra per me esotica ma so che sono scampato ad un rischio di vita. Una specie di isola, assai grande deve essere quella che calpesto con piede sempre più sicuro (dopo gli iniziali squilibri).
Ripensandoci l'isola del sogno mi ricorda da sveglio la zona insulare formata dal fiume africano Chobe, affluente dello Zambesi, nel suo tratto tra Botswana e Zambia, così come l'ho osservata da un natante partito da Kasane. Lo Zambesi è il grande fiume che forma le cascate Vittoria e più ad est il Lago artificiale di Kariba. La diga di Kariba è stata costruita dagli italiani negli anni cinquanta ma il lavoro fu funestato da incidenti luttuosi perché - dicevano i locali - il dio Nyami-Nyami, nume tutelare dello Zambesi (collega del dio Tevere) si era alquanto arrabbiato per l'affronto operato dagli umani. Tutta l'area è bellissima dal punto di vista della fauna e flora ma al piccolo Chobe è legata una riserva naturale che non demerita neanche rispetto al paradisiaco delta dell'Okavango. Chobe e Okavango, in Botswana sono tra i posti più pulsanti di vita della intera Africa. L'Okavango è ancora più poetico in quanto è fiume che non vedrà mai un mare e muore in pieno deserto allargandosi in un delta abortito che è grande quanto l'Irlanda.
Sogno una bella area di verde alternato ad arena, un bush arricchito da piogge più generose del solito.
Uno sguardo quasi dall'alto di un barcone, eppure sono a piedi. Come mai sono così alto e sicuro di me? sono più alto di un giocatore di pallacanestro. Avanti a me si aprono tratti di foresta fluviale con tronchi lambiti o semisommersi dalle acque tranquille (dolci?), in mezzo bush verde ed indietro sullo sfondo una cornice subcontinua di acacie. Ci sono animali anche dove non ne vedo. Anche predatori. Ma non ho paura, solo qualche timore guerriero.
Sì, di quegli animali fieri di essere africani, che sembrano indolenti sino a quando non li ammiri in azione subitanea. Folgori di nervi e muscoli. Rocce di carne e ossa che si animano all'improvviso e che scattano spezzando il profilo della terra che stai sorvolando con il binocolo. Sottomarini che emergono dalla terra per predare il cibo quotidiano. L'animale era lì, qualche secondo prima e non si distingueva da sassi ed arbusti, da fango e infiorescenze. Ora sta qui, eretto ed imponente, con un altro animale (non sempre più piccolo) tra le zanne ed il predato si divincola, talora riesce a scampare, più spesso non si agita più dopo alcuni minuti di agonia... Una storia che colpisce ancora lo spettatore umano che dovrebbe esservi abituato da milioni di anni. Crudeltà? Non so. Una volta ho visto in documentario due aquile pescatrici contendersi un fenicottero ferito da una sola di loro: tra i due litiganti il trampoliere riuscì ad allontanarsi in una livrea rosa e rosso sangue, inscenando una danza macabra e grottesca sulle zampe longilinee e malferme. Mi hanno raccontato di un bufalo isolato dalla mandria ed attaccato dai leoni che era riuscito a trarsi temporaneamente in salvo lungo la riva del fiume: durò una decina di ore il suo andirivieni dalla riva e verso la riva, in una terra di nessuno tra potenze spietate, stretto dai pazienti felini da un lato e dai sonnacchiosi coccodrilli dall'altra. Ore di speranza frustrata perché comunque il suo destino era oramai segnato. Il bufalo stremato ad un tratto decise: meglio una morte più nobile e soccombere da mammifero - in una contesa tra mammiferi - e così lui, che tante volte aveva nuotato sicuro nel fiume scurito dalla possente mandria nera, ritenne di andare incontro ai leoni, come un eroe greco che nel momento della imminente morte fissasse negli occhi i persiani. Qualcuno si ostina a dire di no ma in effetti "la natura ha i denti sporchi di sangue", come scrisse Darwin. Non è cattiva, non è buona, perché non è etica. E' natura e basta e preesisteva alla nascita della morale "genitoriale" ed etica "adulta".
Acque marine lambiscono la riva, dietro di me, da dove sono arrivato in quell'eden. Ora sono tranquille quelle acque, quasi degne di un villaggio turistico alla moda. Senza gente.
Non avevo paura delle fiere che si aggiravano sicuramente intorno annusando presenza umana. I leoni odiano il lezzo umano così diverso dallo sterco di elefante: figuriamoci il lezzo dell'uomo moderno. Alcuni turisti si intestardiscono a mettere il dopo-barba o profumi anche nella savana, divenendo riconoscibili a miglia.
Avevo esperienza di posti simili: il problema vero non erano le fiere bensì la mancanza di un rifugio. Dovevo costruirmi con sassi e rami ricchi di foglie e spine un sicuro ricovero e l'idea mi piaceva.
Mi sentivo un novello Robinson Crusoe (giuro che, all'epoca del sogno, non avevo ancora visto Cast away con Tom Hanks).
Mentre costruisco il riparo mi accorgo che mi manca una cosa per essere completamente felice: voglio con me un bambino (nero?) da adottare ed allevare sin da piccolo; una specie di Venerdì quasi lattante che non sarà schiavo che della bellezza. Sì un bambino, non un lattante, magari più grande con il quale dividere esperienze antiche e nuove, cui insegnare l'italiano.
Sì gli insegnerei l'italiano, gli comunicherei le mie esperienze. Quel ragazzo "africanizzato" nella realtà sembra mio figlio. Dunque, anche nel sogno non vorrei mai rinunciare alla mia "italianità". Questo mi autorizza a pensare che non fuggo da nulla con l'Africa: è solo un ritorno alle origini di me-uomo. Sono fortunato ad essere un "europeo di nazionalità europea" ma accetto meno le indubbie responsabilità storiche che ci derivano dall'essere discendenti di chi ha colonizzato con onnipotenza e senza scrupoli di sorta: noi allora, nel 1800, "scoprivamo" (credendo di essere primi) quegli scenari che esistevano da sempre e con spocchiosa spavalderia battezzavamo con nuovi nomi quel che gli indigeni da sempre chiamavano in altro modo. Quanti di noi confondono per esempio il Lago Vittoria con le Cascate Vittoria? In onore della regina puritana si intitolavano con lo stesso nome luoghi geograficamente lontani e dissimili. Le cascate Vittoria si sarebbero almeno dovute chiamare Livingstone dal nome del loro "scopritore", invece no, ebbero il nome di una regina, come in Italia la pizza "margherita". Non era più poetico il nome dato dagli indigeni? Mosi-Oa-Tunya (vedi foto dall'elicottero) in lingua Kololo significa "Fumo che tuona" ed è vero che gli spruzzi vaporizzati di queste cataratte sono talora visibili a ottanta chilometri (nella stagione umida) ed il rumore può udirsi ad una quarantina di chilometri. Un Fumo che tuona, dunque.
Il bianco continuava a scoprire cose che alle altre razze erano già note e con caparbia onnipotenza il demiurgo mutava nomi di luoghi riveriti da tempo immemorabile perché tutto fosse a "sua" immagine e somiglianza. Così oggi, nella globalizzazione di informazione e mercati (ma non di risorse fruibili da tutti), se entri in un ipermercato non sai se ti trovi a New York, a Barcellona o a Montreal. Il bianco aveva già "scoperto" le Americhe, portando polvere da sparo, morbillo, e bibbia: gli mancava l'Africa ed è stato bravo a distruggere il Continente nero in un solo secolo.


IL GRANDE ALBERO
La strada ha un manto di asfalto alquanto approssimativo e si chiama Zambesi Drive. Si allontana dal centro del villaggio di Victoria Falls, snodandosi per alcuni chilometri lungo la riva destra del fiume Zambesi. Cartelli avvisano che procedere a piedi, verso il big tree (nostra meta) può comportare l'incontro con animali selvatici. Siamo in quattro e decidiamo di spingerci oltre perché tutti sentiamo nelle gambe i segni di ore di viaggio in aereo e corriera. Il sole è ancora alto sull'orizzonte (mancano più di due ore al tramonto), eppoi che paura c'è? Il nastro di asfalto pare rassicurarci sulla persistenza della civiltà urbana. Incontriamo quasi subito escrementi di elefanti abbastanza fresche e penso che non è come impattare escrementi di mucca su una strada appenninica. Qui ci sono elefanti in libertà da qualche parte, vicini. Questa è poi l'ora in cui i pachidermi amano riunirsi presso e dentro l'acqua per ristorarsi e tornare ad indossare il frac serale nerolucido che gli è proprio e che è stato mascherato durante il giorno da abbondanti spruzzi di polvere e fango semisecco al fine di mitigare la invadenza dei parassiti e del calore atmosferico. Quando gli elefanti allentano i propri sfinteri lo fanno con poca parsimonia e spesso urinano sul colle di escrementi in maniera caratteristica.
Il Big Tree verso cui marciamo in silenzio rispettoso è un bao-bab (qui mowana) che probabilmente conta più di un millennio di vita ed ha una circonferenza di una trentina di metri.
Il bao-bab è noto come l'albero capovolto secondo varie leggende. Nelle credenze Khoi-san all'inizio dei tempi il Creatore diede ad ogni animale un albero da piantare; quando arrivò il turno della iena tutti gli alberi più belli erano terminati e ne rimaneva uno brutto tanto grosso quanto alto e senza foglie. La iena si arrabbiò tantissimo e stizzita piantò l'albero al contrario. Era il bao bab.
L'albero è veramente maestoso ma è tardi si deve rientrare prima che faccia buio.
Nel procedere a piedi ci attraversa la strada una fila indiana di galline faraone poi mi blocco perché sono a tu per tu con un facocero , a non più di dieci metri da me, ad ore tre dalla mia posizione. Decidiamo di ignorarci perché - entrambi - siamo animali impauriti. Non solleviamo il nostro sguardo e ci allontaniamo con dignitosa fuga, con gli occhi alle spalle ( - mi sta caricando? - mi chiedo). Il villaggio ed il tramonto si avvicinano: il tempo per fare una foto sulla riva del fiume (- Ci sono coccodrilli qui? O le acque sono troppo mosse per i rettiloni? )
Quando comincio a ritenermi al sicuro (le uniche armi di cui disponiamo sono fotocamere), si ferma un fuoristrada enorme. Ci hanno visto a piedi ed ci avvisano: "dopo la curva ci sono due grossi elefanti maschi", dicono in inglese. Ringrazio e sto per gridare "Fatemi salire a bordo!" ma i sadici ripartono con un delizioso "Bye, bye.". Maledico la passeggiata a piedi: non siamo a Dublino qui e gli elefanti ci sono davvero e stanno giocando con i rami di acacia. Mi sembrano brontosauri dalle dimensioni. Che fare? Come fanno gli indigeni, penso, e li ignoriamo sperando che anche loro lo facciano. Ci è andata bene. Mai il villaggio mi è sembrato più bello, dopo la leggera salita.




PILGRIM'S SKY
El silencio redondo de la noche
sobre el pentagrama
del infinito
Il rotondo silenzio della notte
sul pentagramma
dell'infinito
(Hora de estrellas, Ora stellata - F.Garcia Lorca)
Il cielo dell'emisfero australe ha orizzonti che percepisco profondi e irreali. Come attraverso un obiettivo grandangolare di fotocamera. Sia di giorno che di notte.
Di giorno il bush (anzi l'altopiano a boscaglia, il bushveld) è sconfinato; dall'alto della rupe dove mi ritrovo rapito a guardare un nuovo infinito, qui nel sud della riserva naturale Kruger (Sud Africa), il bush ha il colore di una spiaggia dove l'arena pur sgomitando vittoriosa sulla flora vinta non ha ancora realizzato il deserto totale; ecco, il suolo non è desertico perché punteggiato da una costellazione di punti e macchie di verde che vira verso il pallido. La maggior parte di tali agglomerati verdi (c'è anche del grigio) rivelano di essere gruppi di acacie la cui ombra è stinta come il tronco; qui è là fiammeggia il tronco di una acacia della febbre gialla. Di alcune macchie di vegetazione intisichita ti chiedi se esse possono essere in lento movimento o se è il tuo cervello ad ingannarti visto che riesce a cuocere anche sotto il sole invernale. No, non sono flora, al binocolo ti accorgi che si tratta di gruppi di erbivori, zebre di Bucchell, rari gnu, impala: fauna persa e dispersa nella distesa di quel mondo che si incurva d'azzurro verso l'orizzonte, quasi ci fosse un mare tra terra arsa e cielo terso. No, è solo una illusione ottica di quelle africane descritte da Hemingway in True in the first light (Vero all'alba): non è vero che quella è una spiaggia, non è vero che quella è un mare (e infatti a ben guardare la linea dell'acqua scappa, si allontana sempre di più sotto lo sguardo, non è nitida e scompare alla visione veritiera del binocolo). Qui di acqua, nell'inverno, ce n'è ancora una piccola riserva nei corpi di quegli organismi che sanno sopravvivere alla siccità.
La notte australe poi è un'altra cosa. La Croce del Sud attira primariamente lo sguardo, quasi catturandolo. A malincuore ti dai il permesso di curiosare intorno e fuori della Croce che indica il sud - mi viene in mente che è come quando vedi un leone: c'è lui e basta. Allora e solo allora vedi il Resto: il nero è trafitto da capocchie di spillo lucenti, fiabesche; il cielo paragonato al nostro è assai favorito dalla trasparenza e sembra pullulare di luci come una barriera corallina pullula di vita ad ogni livello di osservazione. La prima volta che ho sollevato lo sguardo all'insù è stato in una notte serena e fredda a Pilgrim's Rest, il luogo dei cercatori d'oro a nord di Pretoria e Belfast, nel Gauteng, in prossimità della riserva Kruger. Non un vuoto risucchiante di angoscia fetale ma il sereno dondolìo di infinito, un gioioso albero di natale. I cercatori di oro che venivano a riposare qui in scenari simili a quelli western del nordamerica erano chiamati "pellegrini" proprio perché privi di residenza fissa ed il nome del paese ligneo che si adagia sulla strada, Pilgrim's Rest significa "riposo del pellegrino." Anche loro, mi immagino, dovevano alzare lo sguardo all'oro del cielo quando smettevano di pensare ossessivamente all'oro della terra: il momento degli inventari, delle paure e sogni onnipotenti è sempre la notte, sovrana del riposo umano.

NOTTE DI HAZIVIEW
Incredibile. A soli cento passi dalla "civile" abitazione (un lodge), in direzione dello specchio lacustre, mi sento diverso nel mentre sprofondo nel buio.
Attraverso un nugolo di zanzare (non le potevo vedere) e spero nella efficacia della chemioprofilassi antimalarica.
Le acacie spinose possono offendere il viso se incautamente cerchi di attraversare ramuscoli a volto scoperto.
Mi fermo e ascolto. Cresce il frastuono di vita che anima le acque di quel mondo. Linfa quae facit laetas segetes fa lieta non solo i campi ma qualunque cosa abbia radici, si muova, strisci, voli e finisca per morire nella vendetta della rinascita attraverso la propria specie.
Un incalzare e coprirsi reciproco di voci notturne per lo più sconosciute, quasi che anche le sonorità condividano il destino di lotta tra specie diverse. Ascolto.
Ecco: ora predomina il cra-cra metallico di un anfibio anuro (un rospo in amore?), ora colgo dei fischi prolungati o ad intermittenza (sono uccelli? sono anfibi anch'essi?). Inutile. Quando stai per concentrare e selezionare la sorgente sonora, essa soccombe ad una nuova e ricominci daccapo. E se quella cosa che sembra un fremito fosse un leopardo in avvicinamento?
Di notte il continente nero si prende ogni rivincita e la sicumera bianca diviene paura. Sale la paura, come una marea di lento orrore, sale dalle scarpe affondate nella soffice erba o urtate dalla roccia. Beninteso, le scarpe non le vedi più, la vista non percepisce oltre le proprie ginocchia e sei costretto ad acuire le sensazioni tattili, magari accavallando le dita per sentire le estremità. Sale la paura di essere solo, alla mercé di tanti fantasmi che sai essere vicini e ti blocchi nel respiro perché anche il rumore dei tuoi polmoni ostacola l'ascolto dell'ambiente esterno. Ancora un rumore, uno scricchiolìo...E questo? la passeggiata frusciante di un pitone che lascia la tana per la caccia notturna...?
Peccato che gli uomini non abbiano naturalmente una visione agli infrarossi. La tensione è tale che non scappi: dolce, selvatica, a trecentosessanta gradi. E vivi, eccitato, in attesa del nuovo segno di vita (o di morte) da cogliere nella folla di urli, risate, gracchiamenti e gracidii e tra onde di fogliame che si frangono sulla fragilità di essere solo.
Dio mio, qui è vero che non hai scelta: o ti senti parte del Tutto o ti senti escluso e minacciato da Tutto.
Mi dico di non vergognarmi se ho anche voglia di scappare. E' da coraggiosi avere una sana paura. E decido di rimanere per mezzora fermo come una acacia tra le acacie. Ora capisco perché Hemingway talora uscisse da solo, di notte, nella savana, armato solo di lancia: la ineffabile ambiguità di essere contemporaneamente predatore e predato.
Ma io ora torno perché non mi va di sfidare la fortuna. Di essere ancora vivo.


TRAMONTI
Pregate la vostra buona sorte che non vi capiti un tramonto di quelli da moglie di Loth perché altrimenti rimarrete impietriti come il personaggio biblico già nei primi giorni di permanenza in Africa. Se si chiama sindrome di Stendhal quella che vi può capitare di beccarvi dinanzi ad un manufatto artistico dell'uomo, si può chiamare sindrome della moglie di Loth quella che capita dinanzi ad uno spettacolo naturale (un mistico direbbe "manufatto di dio"). A me è capitato di ammalarmi calato in un tramonto sullo Zambesi, nel tratto lento e nobile che precede le cataratte di Victoria Falls, tra Zimbabwe e Zambia: ci si pietrifica dappertutto fuorché negli occhi che continuano a volteggiare qui e là nella spasmodica ricerca di particolari cromatici da indirizzare sulla retina in tripudio. Alcune percezioni mi sono sembrate psichedeliche tra le isole di Lwanda (Long island) e Kalunda.
E come esprimere il tramonto trionfale sul Chobe, nel Botswana?
Il sole che cade velocemente, il nostro barcone silente (a motori spenti) tra istmi di terra bruna inframezzati da acqua rilassata. Sulla superficie riflettente, con lo sfondo di un gruppo di elefanti neri e lucidi al bagno (due adolescenti giocano a spingersi di testa), due becchi a forbice volano radenti il pelo rosa e nero dell'acqua raccogliendo larve di insetti e disegnando con il becco parti di ellissi; si inseguono (sono una coppia) i due uccelli e creano un movimento artistico sulla tela dell'acqua: immagini speculari di ali che si combinano a quei cerchi di acqua smossa, pennellate impressionistiche di grande estro, come neanche a Claude Monet è riuscito di carpire alla natura. Se non fosse per il caldo le piroette dei volatili mi ricorderebbero quelle di una coppia di innamorati visti sulla pista di ghiaccio del Rockfeller Centre di NYC. Nella incertezza della luce calante ho fatto in tempo a cogliere un paio di ippopotami che elargivano una apparenza di rotonda passività. Quando nel campo percettivo (di luci e suoni) sono entrati degli impala fruscianti di eleganza, il quadro è divenuto completo. Non era comunque opera umana. La firma era di un dio.
 (dr livingstone-2000)














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