domenica 28 settembre 2014

XXVIII Congresso Nazionale della S.I.C. a Bari dal tema scottante: "Bad or Mad?"


Bari, 28 Settembre 2014. Si è svolto con esito positivo il XXVIII Congresso Nazionale della Società Italiana di Criminologia dal titolo quanto mai indovinato di “Bad or Mad? Il controverso rapporto fra Disturbo Mentale e Crimine violento”. L’incontro, tra specialisti criminologi, psichiatri forensi e medici legali nonché psicologi, avvocati e assistenti sociali, era valido ai fini di ECM (Educazione Continua in Medicina). Va subito detto che il Congresso è stato ben organizzato ed ha avuto luogo nella accogliente sede della Villa Romanazzi Carducci dal 25 al 27 Settembre u.s. L’unico disturbo è stato il maltempo “epocale” che ha visto alternarsi caldo, freddo e pioggia nel giro di poche ore. A queste microstagioni  e microclimi instabili sembra che ci stiamo tutti oramai abituando (ombrello onnipresente come in Francia, vestiti “a cipolla” ecc.) ma per fortuna i momenti di break tra i lavori hanno consentito saluti e scambi socioculturali nei gradevoli giardini che dividono le sale congressuali.

Ha aperto i lavori scientifici una lezione magistrale del prof. Seena Fazel, docente di Psichiatria forense all’Università di Oxford, che ha parlato del rapporto tra crimine e malattia mentale, associazioni, fattori di rischio e predittività. Il ricercatore ha sottolineato come sia aumentato il rischio di violenza nei disturbi neuropsichiatrici ma a complicare il quadro epidemiologico odierno vi è il crescente abuso, anche multiplo, di sostanze di droghe. Il disturbo mentale grave può essere un fattore di rischio variabile anche nella ripetizione dell’atto criminoso (e così anche l’abuso di sostanze psicoattive). Fin qui non abbiamo avuto che conferme a quanto l’intuizione clinica ha già percepito in anticipo rispetto ai dati epidemiologici che vengono sempre dopo le osservazioni.
La “Criminologia narrativa” è stata illustrata dal prof. Adolfo Francia (Univ. Insubria) che si è soffermato sul “narrato” operato dalle varie criminologie che si profilano oggi: una criminologia folk (quella dibattuta sui media che anticipa l’operato dei tribunali troppo lenti e talora li stimola) e la criminologia scientifica; tra loro sembra dibattersi la “criminologia dei tribunali”. Si è anche soffermato sulla “coazione a godere” dei nostri tempi (injunction: Enjoy, interessante da un punto di vista AT), che ricorda il concetto di “soluzione biografica” (diciamo noi) di Zygmunt Bauman (vivere la propria vita avulsa da passato e futuro, come se fossimo l’unica generazione ad avere ogni diritto e nessun dovere sociale verso i posteri).
Stefano Ferracuti, professore associato di Psicologia Clinica alla “Sapienza” di Roma) ci ha illustrato i risultati di una meta-analisi sulle “Alterazioni delle attivazioni cerebrali correlate a compiti che valutano le funzioni attentivo-mnestiche enella psicopatia e nel disturbo antisociale”. Il titolo è già un sommario. Si è parlato di metodiche con Stroop Test e Neuroimaging funzionale.
L’intervento di Cristiano Barbieri (docente di Psicopatologia forense, Univ. Pavia) è stato di impronta psicodinamica e antropofenomenologica e verteva su di un caso particolare: “L’alta cucina del delitto: il cuoco, la sua amante e gli amanti di lei. Un percorso comprensivo dalla oralità alla distruttività”.
La relazione su “Una vita da balente” della prof.  Lilianna Lorettu (past-President della Soc. Italiana di Psichiatria Forense, Univ. Di Sassari) ha descritto antropologicamente la condizione della Balentìa e la potenza del codice barbaricino (al di sopra della Lex, quasi una sharia)  tra faide e isolamento culturale della società barbaricina: sono stati ammessi tratti paranoidi della subcultura con diffidenza e sospettosità nell’ambito di una società matriarcale ove le donne usano indurre nel maschio il sentimento della vendetta interfamiliare. A dire il vero in sede di discussione alcuni specialisti si sono contrastati un po’ troppo vivacemente per un consesso scientifico, quantunque le asserzioni di ambo i fronti fossero più che condivisibili, mettendo a disagio le nuove leve universitarie (ma è noto che qualche personaggio della psichiatria forense usa talora “debordare” teatralmente  incrementando escalation relazionali piuttosto che mediare relazionalmente). Per altro la relazione della Lorettu ha il grande pregio di essere stata coraggiosa nel distinguo Bad-Mad a genesi culturale.
Il prof. Vittorio Volterra, professore emerito di Psichiatria alla Univ. Di Bologna, - ebbi l’onore da studente di essere esaminato da lui in psicofarmacologia, molti anni fa… - ha condiviso la sua esperienza pluriennale di scienziato, sul tema dell’ Infanticidio, con umiltà e classe. Quante volte ci siamo chiesti dinanzi ad eventi di cronaca se l’autore-autrice di siffatto crimine sia bad oppure mad?  Ha esposto e discusso casi esemplari di madri “inconsapevoli” di essere in stato di gravidanza che si sono “liberate” del neonato in circostanze assurde; madri vittime di violenze antiche, anche incestuose, che hanno esploso la loro violenza sui figli; madri ipercuranti affette da sindrome di Munchausen per procura, che per eccesso di farmaci arrivano ad ammazzare i figli; genitori che uccidono i figli pietatis causa; madri gravemente depresse e deliranti che uccidono figli per sottrarli al dolore del mondo; “Medee” che uccidono i figli per vendicarsi di abbandoni (qui potremmo aggiungere come l’alienazione parentale tanto discussa sia in continuum un omicidio psichico dei propri figli); madri affette da ritardo mentale o schizofrenia; donne socioculturalmente svantaggiate ecc.
 Il venerdì ci è piaciuta molto la dotta relazione su “Imputabilità ai tempi di Epimeteo” del prof. Marco Marchetti (Med. Leg. Univ. Molise) che spaziando dalla mitologia perviene ai Sistemi 1 e 2 di Kahneman . Ricordiamo che gli studi sul processo decisionale condotti ormai da molti anni dal premio Nobel Daniel Kahneman hanno mostrato quanto illusoria sia la razionalità e come, in realtà, siamo sempre esposti a condizionamenti - magari da parte del nostro stesso modo di pensare - che possono insidiare la capacità di giudicare e di agire lucidamente. Kahneman ci guida in un'esplorazione della mente umana e propone come la mente sia caratterizzata da due processi di pensiero ben distinti: uno veloce e intuitivo (sistema 1), e uno più lento ma anche più logico e riflessivo (sistema 2). Se il primo presiede all'attività cognitiva automatica e involontaria, il secondo entra in azione quando dobbiamo svolgere compiti che richiedono concentrazione e autocontrollo. Efficiente e produttiva, questa organizzazione del pensiero ci consente di sviluppare raffinate competenze e abilità e di eseguire con relativa facilità operazioni complesse. Ma può anche essere fonte di errori sistematici (bias), quando l'intuizione si lascia suggestionare dagli stereotipi e la riflessione è troppo pigra per correggerla. Marchetti poi cita il pensiero evoluzionistico di Telmo Pievani, epistemologo di Padova, dove ricopre la prima cattedra italiana di Filosofia delle Scienze Biologiche (ma presso lo stesso Dipartimento è anche titolare dell’insegnamento di Antropologia). Insomma noi “siamo sia buoni sia cattivi”, dice Marchetti: noi siamo metaforicamente come i personaggi e lavoranti di un circo ove convivono – entro certi limiti – nani e domatori, giocolieri e animali ecc. ; siamo tutti accomunati dal Circo. Insomma siamo aggressivi e solidali (due aspetti contraddittori moralmente ma non filogeneticamente) ma si apprende socialmente a non essere aggressivi. Ed Epimeteo meno conosciuto del fratello Prometeo attesta la duplicità umana tra pensiero veloce e pensiero lento: nonostante  i due Titani siano fratelli (e cugini di Zeus), sono molto diversi. Prometeo (il cui nome significa "colui che riflette prima") è molto furbo e astuto mentre Epimeteo (il cui nome significa "colui che riflette in ritardo") sembra un tardone. Noi necessitiamo secondo la visione di Marchetti di entrambi, con tutti i pro ed i contro allorché attiviamo un sistema per l’altro nel momento sbagliato.




Citiamo tra le tante relazioni presentate quella su Legami pericolosi, relazioni perverse (Rolando Paterniti), relazione in cui mancava solo la descrizione della simbiosi schiffiana per completare l’excursus; Mafia e psicopatia (Vincenzo Caretti); La follia normale degli uomini che uccidono le donne (Cinzia Cinquegrana); CSI effect o Tech Effect? (Ivan Galliani e Fabrizio Rasi) ove si è dibattuto il tema delle tante serie tv su crimini ed investigazioni iperlaboratoristiche.  
Nel pomeriggio di venerdì abbiamo seguito tra i molti workshop paralleli quello moderato dai proff. Antonello Bellomo, Adolfo Ceretti, Ernesto Ugo Savona su un argomento scottante: Il trattamento degli offenders al tramonto degli OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari). Si è parlato di misure di sicurezza provvisorie (ex art. 206 c.p.), della mancanza di dialogo operativo tra Magistratura di Sorveglianza (Giuseppina d'Addetta) e Dipartimenti (Luigi Ferrannini, Francesco Scapati, Pietro Ciliberti)  nel momento storico in cui si aboliscono definitivamente gli OPG (ultima scadenza in marzo 2015) quando mancano risorse e strutture intermedie e controllate (non ci sono le REMS previste). Si è parlato di modelli di trattamento comunitario del malato di mente autore di reato pericoloso e reiterabile come il modello R-FACT proveniente dagli USA: si è riassunta la esperienza della Comunità Forense “Gonzaga” di Castiglione delle Stiviere nella presa in carico di pazienti “liberi vigilati” (Simona Traverso et al.).
Tanti gli interventi e tanti i relatori che meriterebbero una menzione specifica ma non è possibile: Felice Carabellesi, Jutta Birkohoff, Francesco Carrieri, Vincenzo Mastronardi e tante altre presenze autorevoli.
Chiudiamo con la tavola rotonda del Sabato 27 Settembre – prima della chiusura dei lavori -  con i proff. Roberto Catanesi , Presidente della SIC che ha ceduto la carica a  Isabella Merzagora (neoeletta) e Vito Mormando (Ordinario di Diritto penale a Bari): Psicopatologia e Diritto a confronto: Imputabilità e pericolosità sociale al tempo delle neuroscienze.

Abbiamo omesso tanto ed è una nostra precisa responsabilità aver scelto taluni argomenti ma è anche vero – e questo l’unico appunto ad un congresso così ben organizzato – che era impossibile seguire tutto senza avere il dono della ubiquità. (achille miglionico)

venerdì 19 settembre 2014

Convegno “Malattia di Alzheimer e Demenze correlate” e biomarker nella diagnosi precoce


Bari, 19.9.2014. Nell’ambito della XXI Giornata Mondiale dell’Alzheimer si sta tenendo in Bari, presso la Villa Romanazzi Carducci, il Convegno “Malattia di Alzheimer e Demenze correlate” nel corso del quale si dibattono attualità assistenziali e terapeutiche (19-20 Settembre 2014). I Presidenti dr. Pietro Schino (Alzheimer Italia sez. Bari) e dr. Francesco Badagliacca (AGE sez. Puglia) hanno introdotto i lavori esplorando i dati epidemiologici delle demenze nel mondo occidentale e no, dati allarmanti che hanno “sforato” le più pessimistiche previsioni di anni fa. Comunque la demenza di Alzheimer rappresenta il 60 % di tutte le demenze. Il prof. Nicola A. Colabufo, figura di riferimento nella ricerca biochimica e farmacologica del Dipartimento di Farmacia e Scienze del Farmaco della Università di Bari, lavora in un gruppo di ricerca che sta mettendo a punto successi di rilievo internazionale nella puntualizzazione della genesi del danno alzheimeriano e nella individuazione di biomarker nella diagnosi precoce delle demenze. Ha parlato delle ipotesi classiche e di quelle più recenti nella patogenesi della AD (Alzheimer Desease) e  del ruolo dello zinco (Zn) e del rame (Cu) nella regolazione di quella funzione “spazzina” che nella malattia di Alzheimer non funziona bene determinando accumuli intracellulari e ed extracellulari nefasti per la sopravvivenza neuronale. Lo zinco, in parole povere, “protegge” il meccanismo delle APO-E mentre un alterato accumulo di rame determina il danno. L’APO-E 2 reca danno, la APO-E 4 “protegge”. Tali determinanti genetiche come le APO-E, la presenilina ecc. svolgono un ruolo che si sta pian piano individuando, consentendo di “misurare” nuovi parametri diagnostici da usare nelle fasi precoci di malattia e permettendo interventi precoci. Il rame, importante anche nella patogenesi del morbo di Wilson, svolge un ruolo regolatore tra lavoro dei neuroni e degli astrociti, per cui qualcuno ne parla come di un nuovo “neurotrasmettitore”. Suscita orgoglio e senso di responsabilità per altro verificare che nell’ambito del discusso ateneo barese vi siano  persone che hanno scelto di dialogare con l’estero piuttosto che trasferirvisi e che abbiano saputo superare problemi ordinari e burocratici che “arrugginiscono” gli sforzi della ricerca italiana e pugliese in particolare. Ci viene in mente che uno dei pochi “cervelli” che sia venuto a fare ricerca in Italia, al Centro di Biologia Integrata dell’Università di Trento, per studi innovativi sulla cellula artificiale, il prof.  Sheref Mansy  (n. Sett/2014) ha sostenuto in una intervista rilasciata a Le Scienze, “nobile” edizione italiana di Scientific American, di essere rimasto sorpreso – lavorando in Italia – dalla vivacità degli ingegni italiani ma anche dalla inibizione burocratica della ricerca scientifica  (“Se ordini del materiale per la ricerca  [in Nordamerica] lo ottieni in uno-due giorni: qui a volte possono volerci mesi…”) : poi il prof ha finto di  lagnarsi della lungaggine di concorsi e selezioni che negano la assunzione diretta da parte di un capo-équipe di giovani assai valenti che si perdono poi nel mondo o in un lavoro che li costringe a suboccupazione culturale (“Se identifichi qualcuno con cui lavorare negli Stati Uniti il reclutamento è immediato. Qui c’è la faccenda dei concorsi: capisco che l’idea sia rendere le cose trasparenti, ma penso che l’effetto sia opposto…”, dice acutamente). Dovrebbe contare solo il risultato di una ricerca, conclude perplesso Sheref Mansy, che ha già in tasca un altro finanziamento dalla Simon’s Foundation di New York. Peccato in tutti i sensi. Il prof. Colabufo – contrariamente a tanti suoi colleghi che non parlano quasi mai di chi svolge realmente la ricerca negli istituti universitari - ha ben elogiato i propri collaboratori, ringraziandoli dei brillanti successi, ed ha rimarcato come non interessino i titoli accademici per fare buona ricerca: studenti, dottori e dottorandi sono “pares” rispetto al “primus inter pares” che è magari un “professore” di cattedra. Da tempo non sentivamo una lezione di modestia, serietà professionale e “voglia di lavorare”, tanta voglia di lavorare pur tra difficoltà di ogni tipo, al fine di non delegare – come si fa in Italia che usa sprecare i propri ingegni – la ricerca “vera” alle case farmaceutiche (a proposito ce ne sono ancora in Italia? ne ricordo ben poche): altrove, all’estero,  sono invece le case farmaceutiche a finanziare università o attingere dalle università. Scusate la digressione ma vogliamo pubblicizzare le tante persone OK che abbiamo in questa Italia scissa e poco concludente.
Convegno

Hanno fatto seguito importanti relazioni nel corso del convegno pugliese: la prof. Paola D’Aprile, neuroradiologa dell’Ospedale San Paolo di Bari, ha riassunto magistralmente le neuroimmagini che aiutano nella diagnosi non tardiva della demenza (RMN, RMNf, PET e SPET). Si è parlato della farmacologia (prof. Bruno Brancasi) e delle terapie non farmacologiche, sempre più importanti nella gestione dei casi.  Si è parlato di terapia occupazionale, di stimolazione cognitiva, della gestione del dolore nel paziente con demenza, di nutrizione naturale ed artificiale (usi ed abusi della PEG, che talora serve più ai caregivers che ai pazienti), di approcci palliativi ed etica. Su tutto aleggia il tema della umanizzazione, il che è preoccupante: il tema non manca di essere affrontato in nessun convegno (noi stessi come professionisti e come SIEB ne siamo promotori da sempre) ma forse la insistenza è sospetta e si vuol accennare al fatto che di empatia e rispetto non ce n’è ancora abbastanza nella relazione terapeutica ed assistenziale, al di là della evoluzione tecnologica. Un altro utile spunto di riflessione e aggiornamento che viene dal ben organizzato Convegno. (achille miglionico)

Storia (poco) segreta del caffè







Come una delle bevande più consumate che ci siano, per alcuni seconda solo all’acqua (il che è tutto dire!), il caffè si è ormai fatto veicolo di riti sociali, conversazioni, scambio di idee e di notizie, fino a diventare un vero e proprio simbolo della società occidentale. Immancabile un caffè consumato intorno al bivacco dei cowboys o dei pionieri nei film western, al distributore dell’ufficio e della fabbrica (ci hanno fatto anche una sit-com, Camera caffè, appunto), o in importanti riunioni di manager e detectives, come nella miglior tradizione cinematografica made in U.S.A. Il Caffè è anche conforto, relax e riabilitazione (vedi gli Alzheimer cafè).


Ma il caffè comincia a diffondersi in Occidente solo a partire dalla seconda metà del Seicento, assieme al tè, alla cioccolata e al tabacco. Fino a quel momento questa bevanda nera come la pece, calda e amara era conosciuta e apprezzata solo in Medio Oriente dove, secondo una leggenda, era servita a curare lo stesso profeta Maometto da una grave forma di sonnolenza.
Fino al XIX secolo non era certo quale fosse il luogo di origine della pianta del caffè: si ipotizzava l’Etiopia, la Persia e lo Yemen. Lo scrittore e gastronomo romagnolo dell’Ottocento Pellegrino Artusi, nel suo celebre manuale La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene , sostiene che il miglior caffè sia quello di Mocha (città nello Yemen), e che questo sarebbe l’indizio per individuarne il luogo d’origine.

L’uso del caffè era comunque ampiamente diffuso in tutto il mondo arabo quando i Turchi ottomani conquistarono lo Yemen. Nella sua opera Sylva sylvarum, del 1627, il filosofo Francesco Bacone fornisce per primo una descrizione di alcuni locali in cui i turchi siedono a bere caffè, paragonandoli alle taverne europee. Proprio ai Turchi con cui l’Europa ebbe vari contatti – commerci, ambascerie, ma anche devastanti campagne militari – si deve la diffusione del caffè nel nostro continente.

La diffusione del caffè in Europa fu molto rapida, tanto che ai primi del Settecento il suo consumo era ormai affermato nelle classi più abbienti. Ma fu la borghesia a servirsi maggiormente delle proprietà che erano attribuite alla nuova bevanda: si scoprì infatti che il caffè, agiva sui centri nervosi, provocando un senso di benessere generale, e generando uno stato di maggiore attenzione, ciò dovuto alla «caffeina», una sostanza che si trova nei semi di caffè, ma anche in altre piante tra cui il tè.

All’inizio del Settecento il caffè viene bevuto in pubblico, in locali appositamente destinati a questo scopo: i Caffè, appunto. Solo nella seconda metà del secolo cominciò a essere consumato in casa come bevanda della prima colazione e del dopo pranzo.
I Caffè si diffusero prima di tutto a Londra e poi in seguito anche sul continente. Il loro aspetto inizialmente non era diverso da quello di una semplice osteria: gli ospiti sedevano a un tavolo simile a quello di una taverna e erano serviti da un oste che versava il caffè da un boccale simile a quello impiegato per il vino o la birra. L’unica differenza era che il caffè veniva bevuto in tazze, invece che in bicchieri o boccali.

I Caffè in realtà erano dei luoghi di incontro e di comunicazione: ci si incontrava lì per discutere  di affari, di politica, di arte, di letteratura e di giornalismo. Voltaire, Diderot e Benjamin Franklin si incontrano al mitico caffè Procope di Parigi, fondato dal siciliano Procopio de’ Coltelli. Pope, Swift, Hogarth frequentano  i caffè londinesi. La commedia La Bottega del caffè di Carlo Goldoni descrive appieno questa usanza ormai irrinunciabile della medio-alta   società europea.

Nell’Ottocento, il predominio dell’Impero inglese, attenuò il consumo di caffè, favorendo l’ascesa del tè, importato dalle colonie orientali. All’avvento della Seconda Guerra Mondiale milioni di soldati ritornarono in patria con ricordi amari di battaglia ed il retrogusto altrettanto amaro del caffè, il cui consumo fu ampiamente diffuso dal fronte.

Al giorno d’oggi qualcuno si è spinto a dire che il caffè è: “la bevanda-simbolo di una razza di sociopatici iperattivi determinati a distruggere la Madre Terra”: questo ebbe a leggere in un libriccino trovato su una bancarella del mercato di Calcutta in India un giornalista americano qualche anno addietro. Certo, stando ai tragici dati attuali della produzione del caffè, con 125 milioni di produttori messi in ginocchio negli ultimi anni da una crisi di sovrapproduzione, con la deforestazione dell’America Latina e di altre regioni del mondo per produrre sempre più caffè, lo scenario non è dei migliori.

Ma noi continuiamo e continueremo a bere caffè…anche se con moderazione, perché il caffè come diceva Gigi Proietti nel celebre spot: “Ce piace!”. (Giovanni Balducci)

Chi dimentica la tazzulella e café del grande Edoardo De Filippo?



giovedì 11 settembre 2014

We and Them. La commemorazione delle Vittime dell'11 Settembre tra privato, pubblico e storia



11 Settembre di un anno qualsiasi. Qualche giorno fa, in agosto eravamo lì a commuoverci. Lì dove ci sono due buchi che sembrano scoprire la nudità della Terra: e l'acqua che vi precipita in un perenne pianto. Oggi in USA  cerimonie in contemporanea a Washington e New York per il 13° anniversario per ricordare le vittime, che sono state nominate una per una in elenco vocale. Colpisce il dolore onnipresente nei presenti più della memoria personale di quell'evento che ha segnato il Millennio. Il dolore di chi ricorda quegli attimi interminabili di inferno per averlo vissuto sugli schermi televisivi non potrà mai eguagliare quello di coloro che hanno perduto i loro cari né può essere descritto il dolore e la paura di chi è sopravvissuto (inutili le interviste ai sopravvissuti anche se emerge la evidente incapacità dei sopravvissuti di poter affrontare e narrare  il Trauma). Il dolore serpeggia anche nelle fiction. Un episodio di Bones, la serie ispirata ad una antropologa forense, presenta ogni membro dell'equipe alle prese con quel Trauma ed impegnato ad onorare un cadavere "senza nome" che non era di un homeless ma di un eroe.
Il presidente Obama da Washington ha parlato di una nazione ferita che è sempre in piedi, risoluta e ferma ma ha anche parlato di Speranza per non vanificare quella speranza che lo aveva visto determinato  ad inseguire e perseguire la pace all'inizio del suo mandato. Si è proprio spenta la speranza contro la Forza delle Cose (l'imprevedibile storico)? contro la rinnovata ed inesauribile (quanto la stupidità) furia dell'Universo Jihdaista?

Intanto ieri sera Obama ha rinnovato l'impegno di di raid aerei senza tregua sui terroristi, ha chiamato altre nazioni in coalizione contro la follia omicida che aleggia in questi giorni. Ha precisato che la lotta non è contro l'Islam ma contro chi fa dell'Islam un alibi per efferatezze subito rimbalzate dai mezzi mediatici tra orrore e malafede. Certo fa specie pensare che certe azioni dell'autoproclamato Stato Islamico o  ISIS abbiano scandalizzato quelli di Al Qaeda, quasi quest'ultima organizzazione terroristica fosse una organizzazione scoutistica o un gruppi di auto-aiuto.
In questa guerra mondiale senza fine e  "parcellizzata" - come la chiamammo noi nell'articolo scritto all'indomani della Tragedia che ha sconvolto la Storia (v. archivio) e come l'ha denominata il Papa in un suo discorso - non dobbiamo mai smarrire la speranza. Di un mondo migliore. (a.m.)


INFORMATICA-MENTE: DAL SÈ INTRAPSICHICO AL SÈ RELAZIONALE Tra cibernetica e metapsicologia

  Antonio Damasio, neuroscienziato portoghese *Pubblichiamo, su richiesta di Colleghi e per facilitare la ricerca, questo articolo scientifi...