giovedì 18 febbraio 2010

FUMETTI - Misora per sempre

di Michele Miglionico


Mitsuru Adachi, classe '51, scrive e disegna fumetti da decenni, ininterrottamente. In Italia le sue opere faticano sempre a farsi strada, perché è un mangaka sui generis. Il tratto, le ambientazioni, gran parte del suo linguaggio sono nipponici, ma una sottile sensibilità europea pervade il suo modo di raccontare. Il suo storytelling è talmente efficace e versatile che spesso Scott McCloud lo porta come esempio nei suoi manuali su come fare fumetti. Se c'è da essere poetico, Mitsuru lo è. Se c'è da essere divertente, altrettanto. Questo, nonostante i suoi personaggi rompano il quarto muro per scherzarci su, come la tradizione giapponese permette.
Dovendo scegliere un'opera tra quelle che coraggiosamente la Star Comics continua a proporre al pubblico, focalizziamo l'attenzione su una miniserie recente che può piacere a una fascia trasversale di lettori.
"E' stata la storia di una ragazza, qualsiasi cosa mi vengano a dire", si conclude l'opera, e certamente è così. Misora è il fulcro della vicenda, con la sua determinazione nel voler raggiungere i propri obiettivi.
Adachi ci ha abituato a intrecci affettivi ambientati nel mondo della scuola e dello sport. All'inizio del millennio, però, ha voluto uscire dalle righe. I protagonisti sono sì sportivi, ma fanno parte del più assurdo dei club. Sono amici, ma senza evidenti tensioni sentimentali. Soprattutto, lo scheletro della saga esula dal classico impianto realistico dell'autore, perché è un classico della letteratura disegnata non realistica. Il soprannaturale prende piede e i cinque protagonisti, complice un incidente in un tempietto di montagna, al loro tredicesimo compleanno ricevono altrettanti superpoteri, uno più inutile dell'altro, il che è già materiale per qualche volume. Come farne uso? E' giusto abusarne per vincere gli ostacoli della vita quotidiana? Il tono è sempre leggero, pur ponendosi certi dilemmi. L'atmosfera si fa più drammatica quando il quadro si completa con un villain: un ragazzo misterioso, con un fratello-spalla che non gli è da meno, che ha tutte le intenzioni di usare il suo potere per assoggettare le masse e fare pulizia nel mondo, a suo dire sovraffollato. La dinamica conflittuale non si dipana nel modo in cui sono abituati i lettori di fumetti americani: lo scontro avviene a livelli più sublimati, che siano gare sportive o di popolarità in cui si devono mettere da parte gli scrupoli per evitare catastrofi.
Non tutto è "rose e fiori". Il maestro ci offre un interessante approccio al tema dei supereroi e delle loro nemesi, ma (non sappiamo se per esigenze extra-narrative) il lavoro pare affrettato, in particolare nei volumi finali dove la resa dei conti non è molto chiara e lascia parecchi dubbi alla prima lettura.

mercoledì 17 febbraio 2010

LIBRI - Tutto per amore: anche perdere il mondo

di Michele Miglionico


Grazie alle Edizioni Wip, continua la pubblicazione dei Quaderni di Traduzione Letteraria, a cura di Gaetano D'Elia, dell'Università degli Studi di Bari. La collana Boadicea rinnova la reperabilità di opere anglosassoni di autori importanti, ma pressoché introvabili nei cataloghi italiani, come Marlowe o Shelley, oltre allo stesso John Dryden, figura centrale della letteratura inglese del diciassettesimo secolo. Un artista eclettico, poeta, drammaturgo e, guarda caso, traduttore: apprezzerebbe l'impostazione della collana, che prevede il testo originale a fronte dell'adattamento, molto personale, del curatore. 
"Tutto, per amore: anche perdere il mondo" è una variazione sulla leggenda dell'amore tra Antonio e Cleopatra, che tanto fascino ha esercitato sugli scrittori britannici, compreso Shakespeare. La versione di John Dryden calca la mano sulla passione reciproca dei due protagonisti, avversata dalle persone a loro vicine e dal buon senso politico, un amore totalizzante che li porta alla rovina, come già capitato a illustri colleghi del teatro. Una lettura adatta a fruitori dall'animo romantico o ad addetti ai lavori. 
Una prefazione dello stesso autore e una postfazione del traduttore danno gli strumenti per apprezzare l'opera.

lunedì 15 febbraio 2010

TEATRO - Giselle

di Michele Miglionico


"Giselle" è un'opera imprescindibile della storia del balletto classico ed è quindi uno spettacolo ideale per chi voglia affacciarsi per la prima volta a questo mondo. Come sempre, è d'obbligo documentarsi sull'intreccio che verrà rappresentato, in modo da fruire al meglio della messa in scena. In questo caso, la storia parla della contadina Giselle, amante del ballo ma malata di cuore, che si innamora ricambiata di Albrecht, principe camuffato da plebeo, già promesso sposo di una sua pari. Quando il geloso Hilarion svela a tutto il villaggio l'inganno, Giselle muore di crepacuore. Ritornerà tra le Villi, le leggendarie fidanzate-fantasma abbandonate prima delle nozze, e riuscirà a vendicare l'amato e a salvarlo comunque dall'ira delle sue simili. Eleonora Abbagnato (Giselle) merita la sua fama internazionale. E' la prima volta che la prima ballerina dell'Opera di Parigi affronta questo ruolo, perché sempre considerata troppo alta e quindi relegata al personaggio secondario di Myrtha; tornata in Italia da regina, sono cadute le pregiudiziali e le è stato permesso di dimostrare di esserne... all'altezza. Leggiadra ed elegante, stupisce il pubblico per la facilità con cui si muove sulle punte o dando l'impressione di essere leggera come una piuma, negli adagio come in altre perfomances. Il suo partner Jean-Sebastien Colau (Albrecht), invece, viaggia su binari più comuni, tra alti e bassi. In media un livello eccellente, ma la pesantezza di alcuni assemblées o altri passi fa storcere il naso ai più sensibili. Inoltre, in alcuni frangenti la sintonia fra i due protagonisti scricchiola. Buona parte della colpa è probabilmente da imputare alla non impeccabile sincronia tra il corpo di ballo e l'Orchestra della Fondazione Petruzzelli, che porta a qualche scollatura. Nulla da ridire sull'interpretazione drammatica dei personaggi, efficace per tutto il cast, in particolar modo per Andris Pudans (Hiliarion). La tradizione "russa" del Latvian National Opera Ballet garantisce solidità a tutto lo spettacolo. Ineccepibili e funzionali le scenografie: il bucolico scorcio di realtà contadina del primo atto, e ancor più lo spettrale cimitero del secondo atto, minimale ma che riesce a regalare qualche brivido d'inquietudine, anche grazie alle coreografie femminili della protagonista e delle Villi. Se alla fama dell'opera e al livello medio delle esecuzioni aggiungiamo il suggestivo scenario del teatro Petruzzelli, alla fine dei conti anche il biglietto più costoso vale l'acquisto.

mercoledì 10 febbraio 2010

TEATRO - La passione delle troiane

di Michele Miglionico


Quando Fabrizio Saccomanno (Taltibio) rompe il silenzio con un monologo in griko, ci consegna la chiave di lettura dello spettacolo. Il Salento è il trait d'union ideale tra il mito classico e il mito cristiano, essendo stato tanto parte della Magna Grecia quanto colonia bizantina - e il griko, variante locale del greco, tuttora in uso in alcune comunità, ne è evidente eredità. La familiarità degli attori con questa lingua si evince dalla veracità con cui ne fanno uso, riuscendo quasi a far crollare il muro dell'incomprensione; la sua sonorità ci restituisce con vividezza i personaggi di Euripide, più vicini che mai all'originale, nonostante la contaminazione pugliese. E in griko sono anche le canzoni, prodotte dallo stesso cast, innestate nella tradizione locale, suonate dal vivo: la musica è colonna portante della rappresentazione. Per sua stessa natura convoglia con più facilità il grido di dolore delle donne di Troia, che vedono cadere fratelli, mariti, figli per una stupida guerra. Particolarmente vibranti le interpretazioni canore di Alessandra Crocco, nei panni di Cassandra. La magia sta nel mancato stridore tra i mondi di Troia, della Puglia e, in una certa parte, della Gerusalemme in cui l'addolorata Maria piange suo figlio crocifisso. Non mancano i monologhi in italiano. Il giovane Astianatte (Fabrizio Saccomanno) lamenta la fine orribile di suo padre Ettore, insieme a sua madre Andromaca (Ninfa Giannuzzi) e a sua nonna Ecuba (Silvia Ricciardelli), prima di subire un martirio ante-litteram ed esser compianto a sua volta dalle donne di famiglia. Il suo corpo viene deposto come il "Cristo morto" di Andrea Mantegna, il momento in cui la contaminazione tra le due varianti dello stesso archetipo - la morte dell'innocente - è massima e palese. Confonde meno del previsto l'eco di Maria di Nazareth nelle parole e nei gesti di Andromanca ed Ecuba. Ora come allora, la compagnia denuncia l'orrore e l'insensatezza del mondo degli uomini, che accecati dal loro odio finiscono per morire e lasciar sole, con le loro ferite inguaribili e ingiustificabili, le donne a loro care. La felicissima intuizione di affidare alle salentine e alla tradizione delle moroloja questo grido universale, trascendente nel tempo e nello spazio, è di Salvatore Tramacere. Così, se ancora ce ne fosse bisogno, i Cantieri Teatrali Koreja si confermano una realtà solida e prolifica, capace di far leva sulle proprie radici pur parlando a tutti. Da tenere sempre d'occhio.

R. Magritte - Le Savoir La porta Socchiudo la porta: s'intravede la luce La via non è fuori  È nel buio più intenso  nella parte più osc...